Steven Wilson e i fantasmi. Fantasmi delle other stories di “The Raven That Refused To Sing” (2013), il fantasma di Joyce Carol Vincent, (ragazza trovata morta nel suo appartamento a Londra nel 2006, dopo che il suo corpo era rimasto lì per più di due anni) la cui storia è la principale fonte di ispirazione per il suo (pen)ultimo album, “Hand. Cannot. Erase” (2015); e ancora, è un EP di fantasmi anche “4 ½” (2016), dal momento che è composto da brani che non avevano trovato posto nei suoi due precedenti lavori, ma che sono immersi fino all’orlo nel loro spirito compositivo; quasi delle ghost track, appunto, portate finalmente alla luce.
Non c’è niente da fare, da qualunque parte lo si voglia guardare, quello di Steven Wilson è un percorso costellato dalla figura del fantasma.
E l’ingresso nel Politeama Rossetti di Trieste, per la prima delle quattro date italiane di questa seconda parte del suo “Hand. Cannot. Erase. Tour”, organizzato da Azalea Promotion, non fa che ribadire il concetto: nebbia, atmosfera tanto affascinante quanto lugubre, luci bluastre; è l’ingresso di un cimitero. Un cimitero in cui Wilson e la sua band stanno per riportare letteralmente in vita i fantasmi.
E ancora, un cimitero in cui loro stessi stanno per diventare fantasmi, a un tempo visibili e invisibili, corporei e, appunto, fantasmatici. Alle 21 precise le luci si spengono. Sullo schermo alle spalle della strumentazione compare un video che riporta ambienti urbani. Rumore di pioggia e un vociare insistente di bambini, una base elettronica minimale e ossessiva. È l’inizio di “First Regret”, frammento che apre “H. C. E.”. Il concerto è iniziato ma sul palco non c’è ancora nessuno. In platea qualcuno applaude, qualcun altro fischia nel tentativo di chiamare la band. Tanti chiacchierano. La base di “First Regret” prosegue per altri cinque minuti abbondanti, il tempo passa, ma dei musicisti neanche l’ombra. Il concerto è iniziato senza di loro. Ancora una volta, la loro presenza fantasmatica pervade la scena. Man mano che il tempo passa, il pulsare ossessivo si trasforma in una (s)piacevole sensazione di alienazione urbana. Ed è tutto qui il tema centrale del suo ultimo album, materializzato all’ennesima potenza in un inizio mai così perfetto, necessario quanto lo schermo nero in apertura di “2001: Odissea nello Spazio” di Kubrick.
Dopo una decina di minuti ecco che entra in scena Adam Holzmann, ad introdurre il primo tema tastieristico dell’album e poco dopo arrivano anche Wilson (sfoggiando una maglietta in memoria di David Bowie) e gli altri componenti della band, in un boato di applausi. Da fantasmi si fanno corpi, un processo che, come vedremo in seguito, verrà ripetuto nel corso dello spettacolo, secondo diverse modalità.
La prima parte del concerto è dedicata all’esecuzione integrale di “H. C. E.”; uno schema predefinito dunque, che però riserva già le prime grandi sorprese. L’album del 2015 infatti ha un potenziale dal vivo veramente imponente, superiore perfino al suo capolavoro “The Raven That Refused To Sing”; rispetto a quest’ultimo, “H.C.E.” è un disco molto più caldo, meno complesso dal punto di vista strumentale, molto più aperto per tutti i musicisti. Se i concerti di “The Raven…” si risolvevano in una mera(vigliosa) esecuzione letterale dell’album (con Wilson che si ritrovava a muoversi a mo’ di direttore d’orchestra per coordinare i diversi strumenti), in questo caso la maggiore libertà offerta dalla struttura del nuovo disco, consente non solo di eseguire, ma anche di interpretare. “H.C.E.” eseguito dal vivo non è H.C.E. in versione album. Certo, non stiamo parlando di grandi reinterpretazioni o riarrangiamenti, le due versioni sono comunque vicine (e non potrebbe essere altrimenti, vista la cura maniacale di Wilson per tutti gli aspetti del suono); ma vis(su)to eseguire davanti agli occhi, ogni brano arriva con un’immersione davvero travolgente, della quale, al primo ascolto casalingo dell’album, avevamo appena intuito lo sterminato potenziale.
Questa prima parte acquista dunque un’omogeneità e una densità strabiliante, evidente fin dalla cavalcata di “3 Years Older”, che già mette in luce la maggiore libertà di cui godono tutti i musicisti. L’intermezzo strumentale di questa mini suite di oltre 10 minuti è retto da uno strabiliante assolo di Holzmann, che si ripeterà poco dopo su “Regret #9”, probabilmente il miglior momento di questa prima parte del concerto: assolo di Holzmann (da far impallidire il Patrick Moraz degli Yes di “Relayer”), seguito dalla chitarra di Kilminster. Ed è già standing ovation per gran parte della platea.
Dopo la fragilissima “Transience”, è il turno di “Ancestral”, il pezzo più lungo dell’album, dalla struttura simile (ma perfezionata) a “Russia On Ice”, uno dei cavalli di battaglia dei Porcupine Tree (da “Lightbulb Sun”, 2000). Il riff intrecciato di chitarre nella seconda parte del brano travolge letteralmente il pubblico, sostenuto da un comparto luci mai così creativo e coinvolgente (perfetto anche nell’interpretare il twist aggressivo di “Routine”, uno dei momenti più toccanti dell’album).
Chiudono questa prima parte la struggente “Happy Returns” e la coda “Ascendant Here On”.
Si accendono le luci, quindici minuti di pausa.
La pausa prima del ritorno dei fantasmi, che si presenteranno, nel secondo set, da un lato indossando le vesti dei Porcupine Tree, dall’altro richiamando alla memoria David Bowie e Prince, i quali, come spiega Wilson, sono stati fondamentali per la sua crescita creativa. La seconda parte è tutta un imprevedibile amarcord musicale (anche in questo caso, scelta molto coerente: più degli altri, “H.C.E.” è un album in cui confluiscono naturalmente tutti i suoi percorsi, dai No-Man, ai Porcupine Tree, ai Blackfield) e inizia proprio con “Dark Matter”, brano dei Porcupine (ma scritto interamente da Wilson, come tutti quelli pescati dal repertorio del gruppo) del lontano ’96, dall’album “Signify”.
E fa parte del repertorio dei Porcupine anche “Lazarus”, introdotta da un lungo e commosso discorso, in cui Wilson spiega il motivo per cui l’esecuzione di questo brano vuole essere il suo omaggio a Bowie (in alcuni dei concerti precedenti eseguiva “Space Oddity”). La coincidenza del titolo con l’ultimo singolo rilasciato dal Duca e soprattutto il verso “My David don’t you worry, this cold world is not for you”, riescono a trasformare completamente il senso del brano; e quel verso, in questo nuovo contesto, è stato il momento più commovente e sentito di tutta la seconda parte. Un momento in cui i fantasmi, tutti i fantasmi, si sono finalmente incontrati, hanno danzato per noi, ci hanno ricordato che la loro presenza, nonostante tutto, è più forte che mai; e hanno donato un nuovo e vivissimo senso a qualcosa che tutti i fan conoscevano a memoria. Da mettere i brividi.
Prima di “Lazarus”, una sempre convincente “Harmony Korine”, “My Book of Regrets” da “4 ½” e “Index”, in una meravigliosa versione che stravolge completamente l’arrangiamento della prima parte (sostenuta in questo caso dal solo schioccare delle dita), rispetto alla registrazione in studio. L’esecuzione di “Don’t Hate Me” è un ibrido tra la versione di “Stupid Dream” (1999) e quella di “4 ½” (rispetto a quest’ultima perde la voce femminile di Ninet Tayeb sul ritornello, ma mantiene il nuovo arrangiamento nelle parti strumentali), per poi chiudere con la devastante “Vermilioncore” (ancora fantasmi: ricordate “Wedding Nails” da “In Absentia”?) tratta sempre da “4 ½” e “Sleep Together”, repertorio Porcupine (“Fear of a Blank Planet”, 2007).
Per questi ultimi due brani, Wilson ricicla (e ancora, perfeziona), un coup de théâtre già utilizzato nel tour precedente: un telo semitrasparente cade all’estremità del palco, separando i musicisti dal pubblico. Wilson e la band si trovano ad essere di nuovo delle presenze spettrali, dai contorni non ben definiti, costretti in un altro mondo, quello del palco, al di là (aldilà), dello spazio occupato dal pubblico. Sul telo vengono proiettate altre immagini, che si sommano a quelle dello schermo sullo sfondo, aggredendo e disorientando i sensi dello spettatore, moltiplicando la percezione dello spazio.
Finita “Sleep Together”, il telo crolla, i fantasmi tornano corpi, ma la band esce di scena, acclamata a gran voce dal pubblico in visibilio, che intanto ha già abbandonato le proprie poltroncine e si è andato a posizionare sotto il palco (“Please, feel free to show your enthusiasm whenever you want!” aveva detto Wilson subito all’inizio dello spettacolo).
Solo un paio di minuti e Wilson torna in scena, per l’immancabile encore. E qui i fantasmi regnano davvero sovrani: si parte con il preannunciato omaggio a Prince (un’ispirata “Sign “☮” the Times”), per poi passare a “The Sound of Muzak” (ancora Porcupine, da “In Absentia”, 2002), e gran finale con “The Raven That Refused To Sing”, quintessenza della spettralità della poetica Wilsoniana (per sua stessa ammissione il più bel brano che lui abbia mai composto).
Una rapida occhiata all’orologio ci dice che è mezzanotte e un quarto. Sottraendo i 15 minuti di pausa fra il primo e il secondo set, fanno esattamente tre ore di show, senza un minimo di respiro. Uno spettacolo in cui Wilson, fedele al suo desiderio di non voler mai fare la stessa cosa due volte, è riuscito nella non facile impresa di superare se stesso, realizzando quello che ad oggi è probabilmente il suo spettacolo più entusiasmante e convincente. Uno show di gran lunga più avvolgente rispetto alla mostruosa (ma leggermente più fredda) dimostrazione di forza e tecnica del tour precedente e in cui perfino la sua capacità di interazione col pubblico (da sempre uno degli aspetti più criticati e problematici delle sue esibizioni) si è dimostrata davvero sorprendente.
A tutto questo, si aggiunge una band forse mai così affiatata: oltre alle colonne portanti Holzmann e Beggs, troviamo il talentuoso Dave Kilminster alla chitarra (per molti anni con Roger Waters e Keith Emerson) e Craig Blundell alla batteria, davvero incisivo e capace di sfruttare ogni momento di libertà creativa per imprimere il suo marchio. Durante il concerto Wilson non ha perso occasione per ribadire che questa è “The best band I’ve ever had”. Probabilmente è vero.
Così come è vero che uno show di questo livello difficilmente si cancella dalla memoria.
Lunga vita a Steven Wilson.
Lunga vita ai fantasmi.
Marco “Mr. Pink” Catenacci (Interstellar Overdrive – Radio City Trieste)