TRIESTE – Una delle qualità del blues è che si può apprezzare sia nelle sue versioni tradizionali che nelle sue interpretazioni meno canoniche. E che in entrambi i casi può essere piacevole, interessante e appagante. La serata di lunedì proposta dal festival Hot in the City nel castello di San Giusto ne è una prova lampante.
Pronti, via. Le sorelle Lovell salgono sul palco, attaccano subito con il riff iniziale di She’s a Self Made Man e richiamano il pubblico, seduto e composto sulle loro sedie, ad alzarsi ed accorrere sotto il palco.
È chiaro fin da subito che ciò che si preparano ad offrire è qualcosa di diverso.
Rebecca e Megan Lovell sono cresciute nella terra del blues, della roots music, del bluegrass, sono fatte della stessa sostanza. Non possono interpretare il genere, lo trasudano.
La scaletta alterna pezzi più energici (Trouble in Mind, Wanted Woman-AC/DC), a pezzi più groove (Bleach Blonde Bottle Blue, Holy Ghost Fire) e ad alcuni momenti più intimi (John the Revelator, Might as Well) senza un calo di tensione, un momento in cui i musicisti non sembrino un tutt’uno con la loro musica.
L’affiatamento della band è impressionante, a partire dalla sezione ritmica (Brent Layman al basso e uno strepitoso Kevin McGowan alla batteria), decisamente più presente che sui dischi, senza però essere mai invadente.
Rebecca è una frontman eccezionale, una sirena che ammalia e avvelena con la sua voce, ed una chitarrista che sa essere polverosa, ruvida e allo stesso tempo soave, proprio come la sua terra rossa, quel Georgia clay che evoca nel brano Blue Ridge Mountains.
I meravigliosi, armonici contrasti si notano anche nella sorella Megan: molto meno estroversa ed appariscente, ma la sua slide guitar è padrona della scena, e la sua voce dialoga in perfetta sintonia con Rebecca.
L’energia è contagiosa, come testimoniano i mille sorrisi sul palco e tra il pubblico composto da giovani americani in vacanza, signori e signore ampiamente sopra gli -anta, e bambini con genitori che ci tengono a fare crescere bene i loro figli.
La forza della musica di Larkin Poe infatti sta nell’essere fresca e moderna, ma non per questo meno “vera” o distante dalla tradizione: può ammiccare al pop di Lily Allen (Mad as a Hatter) o ispirarsi alle sonorità di Jack White (Bad Spell, il primo estratto dal prossimo album, Blood Harmony, in uscita a novembre), e allo stesso tempo omaggiare Son House con Preachin’ Blues, richiamare Blue Sky degli Allman Brother all’interno di Back Down South, e concludere la serata con una trascinante versione di Come in My Kitchen del padrino del blues Robert Johnson.
Nell’opening act la friulana Eliana Cargnelutti, supportata da una band di musicisti ineccepibili, ha proposto, invece, un blues che rielabora i classici standard, facendo qualche incursione nell’r&b e nel boogie.
I brani hanno un unico imperativo: trascinare. Ed il pubblico, pur accomodato sulle proprie sedie, non può fare a meno di battere il piede e seguire il ritmo.
Eliana, supportata da una solida sezione ritmica, e un tappeto di hammond su cui si innestano i fiati, propone i suoi brani (tra cui spiccano Who is the Monster? e Breathe Again del suo più recente Aur) con energia ed eleganza.
La sua voce e la sua chitarra, entrambe impeccabili, spiccano anche quando interpretano un classico moderno come Soulshine (the Allman Brothers Band).
Eliana e la sua band vengono salutati da convinti applausi che premiano l’ottima interpretazione del blues più tradizionale.
Grazie Good Vibrations Entertainment Srl & Trieste is Rock per averci offerto una speciale serata di blues al femminile.
Grazie a Eliana Cargnelutti per averci dimostrato che anche in Italia il blues si sa suonare bene.
E grazie Larkin Poe per averci dato una prova tangibile che il blues è vivo e vegeto, e per averci fatto vedere (e sentire!) che l’America è ancora in grado di regalarci emozioni meravigliose.
Erasmo Castellani
per Radio City Trieste e Rock On radioshow