Archivi per categoria: RECENSIONI
3-11-2016 18:32 Visti per voi da Roberto Alessio (Radio City Trieste)
Morgan
L’ennesimo tentativo di creare in laboratorio un essere superiore fallisce miseramente. Quando l’entità acquisisce consapevolezza di sé, allora iniziano i guai, e la creatura si ribella al suo creatore.
Un’agente speciale viene mandato in missione con il compito di valutare e terminare la creatura, ma, alla fine, chi è la creatura e chi il creatore?
Film appena gradevole, penalizzato da scene violente e tutto sommato anche prevedibili, specialmente se alla fine, la creatura non è da sola.
Si può fare di più, specialmente con le grandi firme Scott.
I’m not a Serial killer
John ha 16 anni e potenzialmente è un serial killer. Ne ha tutte le caratteristiche, ma anche delle regole ferree per evitare di fare del male.
Quando scopre un autentico mostro nel suo vicino di casa, dovrà far uscire il suo lato oscuro per fermarlo; e per fare del bene, sarà costretto a fare del male.
Un gradevole film ambientato in un midwest sommerso dalla neve, dove si uccide per amore e si fa del male per il bene.
Nel cast il “mostro” è Christopher Lloyd ( “Ritorno al futuro”), affiancato da un bravo e promettente Max Records (bambino nel film “Nel paese delle creature selvagge”).
Qualche scena splatter, per un finale tra l’horror e il satanico, non aggiungono nulla di nuovo al genere. Si può vedere, senza grandi aspettative.
3-11-2016 17:01
For the Love of Spock
A cinquant’anni dalla nascita di Star Trek, Adam Nimoy, figlio del celeberrimo Leonard, ai più noto per aver vestito i panni del sig.Spock, ci propone un ritratto inedito di suo padre.
Un film documentario di rara bellezza che non fa sicuramente rimpiangere i ben più acclamati film dello stesso genere, con registi più famosi e maggiori risorse economiche.
Ecco, dunque, il sig. Spock visto con gli occhi del figlio regista, con la narrazione di tutti i protagonisti della saga trekiana, quella “classica” per intenderci.
Docufilm intenso che ci propone non solo un attore, ma soprattutto un uomo e un padre di famiglia inedito.
Alla fine gli applausi a scena aperta non vanno solo all’icona pop della fantascienza, attore e padre, ma anche a tutti quei padri che non ci sono più e che negli anni Settanta hanno accompagnato i propri figli a seguire quella che, ancora oggi, è probabilmente una delle serie di fantascienza più belle di sempre.
26-09-2016 18:31 Marco Catenacci per Radio City Trieste
Dopo l’anteprima fuori concorso alla 73esima Mostra del Cinema di Venezia, esce nelle sale italiane come evento speciale il film documentario di Andrew Dominik sulla realizzazione del nuovo disco di Nick Cave. Al cinema solo il 27 e il 28 settembre.
One more time, with feeling: ancora una volta, con sentimento. Ancora una volta, dopotutto e nonostante tutto.
Ancora una volta, ancora una canzone, ancora un altro disco. Ancora un tentativo di riprendere in mano le redini della propria vita (di rimetterla letteralmente a fuoco), perfino dopo un evento così traumatico come la prematura e tragicamente accidentale morte di un figlio.
Arthur Cave muore il 14 luglio 2015, dopo essere volato giù da una scogliera ad Ovingdean Gap, vicino Brighton, nel sud dell’Inghilterra.
Un evento che va a porsi come un taglio, una frattura insanabile nell’esistenza di Nick e della moglie Susie: un taglio di montaggio, appunto, una fotografia bidimensionale inserita improvvisamente all’interno di un flusso narrativo a tre dimensioni.
O un evento “accidentale” come una caduta (!) della camera (“There’s no such thing as accident”, sottolinea Nick Cave) a ribadire e negare allo stesso tempo l’in(e)sistenza del caso.
Uno dei pregi più grandi del nuovo film di Andrew Dominik (presentato alla 73esima Mostra del Cinema di Venezia e rimasto clamorosamente e inspiegabilmente fuori concorso), sta nell’incredibile sapienza con cui il regista neozelandese sa usare il linguaggio cinematografico come elemento significante, sempre perfettamente aderente non solo ai temi affrontati, ma anche al tono, funebre ed elegiaco, dannatamente disperato.
Un linguaggio che è inevitabilmente problematico, a cavallo tra documentario e film-concerto, tra finzione sapientemente orchestrata e interviste capaci di scandagliare argomenti profondamente universali, in cui il Nick Cave musicista e artista emerge proprio a partire dalla sua figura più umana e paterna (con tutti i vuoti e le debolezze che una situazione tragica di questo tipo fa inevitabilmente implodere).
Dominik aggira e ribalta il linguaggio del tipico film sul backstage (in fin dei conti si tratterebbe anche di un lavoro sulla realizzazione del nuovo disco di Nick Cave, Skeleton Tree, uscito il 9 settembre), per realizzare un’opera di una potenza visiva ed emotiva sconvolgente, una vera e propria sinfonia per immagini, struggente e insieme meditativa.
Perché alla fin fine, prima di tutto questo, One More Time With Feeling è un film sull’elaborazione del lutto come momento in cui dover rimettere a fuoco (l’inizio, con l’intervista a Warren Ellis da rifare perché out of focus, è emblematico, così come tutta la sequenza che segue, in cui Nick si sposta da una stanza all’altra, entrando ed uscendo continuamente dalla profondità di campo) e ricomporre i frammenti della propria esistenza.
Frammenti che si fanno canzoni, canzoni che si ricompongono, ancora una volta, nell’unità di un album, di cui proprio Warren sembra avere il controllo a livello a realizzativo (“He can put the pieces back together”, dice Nick del compagno).
Il fatto che il film si apra proprio sul violinista dei Bad Seeds lo eleva ad elemento chiave del pensiero, a personaggio capace di incarnare il desiderio di ricostruire il puzzle della propria vita, disintegrata da quel drammatico evento.
E tuttavia, sono frammenti che non andranno mai a costruire un flusso di senso compiuto. Nessuna apertura, nessuno svolgimento, nessuna chiusura; nessuna narrazione.
“I don’t believe in narrative anymore”, sentenzia Nick.
Sono lontani i tempi di Murder Ballads, album del 1996 in cui l’artista australiano parlava della morte attraverso nove storie (più Epilogo) sul tema. Adesso i suoi testi non raccontano storie, e non possono più farlo, perché la sua percezione, oggi, è che vita e morte siano da tutt’altra parte, in tutt’altra direzione.
Impossibile ridurre tutto ad uno, impossibile far convergere il dolore entro i limiti di una frase da cartolina (“He lives in my heart”), impossibile sottostare alle ferree regole della continuità narrativa (“Fuck continuity!”); impossibile, forse, concepire e realizzare un disco che sia perfettamente compiuto.
Ecco allora che in relazione all’album (l’elemento compiuto, appunto), il film serve a Cave per far emergere proprio questo, una lavorazione e un’idea del mondo e della vita significativamente e insanabilmente frammentaria, che prima di presentare un’opera perfettamente compiuta, si ferma a contemplare tutte le sue parti (le canzoni), come tasselli di un puzzle la cui collocazione precisa potrà essere data solo in un secondo momento.
Prima i frammenti, poi (forse) l’unità, nella disperata consapevolezza che quell’evento rappresenterà per sempre una frattura irrecuperabile.
Di fronte alla tragicità della vita non resta altro che continuare a fare quello che si è sempre fatto, comporre canzoni, realizzare dischi; cantare, chiamare, con la paura costante, un giorno, di perdere la voce.
30-07-2016 9:59 Roberto Alessio per Radio City Trieste – foto Fabrice Gallina
La splendida voce di Mika per un concerto pop allegro, pieno di sorrisi e spensieratezza.
Non è stato un autentico bagno di folla quello che ha accompagnato l’esibizione di Mika per l’unica tappa regionale del tour estivo “No place in heaven”, soprattutto se paragonata a quella degli oltre 15 mila metallari accorsi per gli Iron Maiden solamente 48 ore prima, entrambi organizzati da Zenit srl e Azalea Promotion.
E’ vero, anche se il genere musicale e soprattutto la storicità oltre che il peso degli artisti esibitisi a così breve distanza di tempo sono troppo diversi per qualsiasi tipo di confronto, che al pubblico presente in Piazza Unità d’Italia, attestato sui 6 mila paganti, oltre a quello non meno numeroso che, furbescamente e non senza polemiche, si è posizionato tra le transenne e il mare, ha lasciato un po’ l’amaro in bocca per una serata, comunque, dall’esito molto piacevole; e Trieste, per movimentare la propria economia ed il turismo, come la vita cittadina stessa, di serate come queste non può farne a meno.Il concerto, che verrà ricordato più per la simpatia e la genuinità del cantante che per le forti emozioni in grado di suscitare nel pubblico, comunque soddisfatto dall’esecuzione di canzoni orecchiabili, sempre gioiose e ballabili, è iniziato alle 22.00 con mezzora di ritardo, fatto questo che non è passato proprio del tutto inosservato.
Già presente nella nostra regione nel 2010 a Villa Manin, a Udine per girare il video della canzone “Hurts”, e ancora proprio a Trieste nel 2014 in qualità di giudice di ITS Artwork , Mika ha comunque cercato di recuperare il tempo dell’attesa cercando di trasportare subito i fans nel suo mondo coloratissimo, quasi da cartoon, fatto di palloncini e coriandoli lanciati sul pubblico, telefonini che si accendono per ricreare un cielo stellato su “Underwater” e improvvisazioni vocali davvero notevoli ed altre in falsetto.
Ironico ed elegante, nel corso della serata l’eclettico artista ha scherzato a più riprese, incespicando, non sempre volutamente, nell’uso della lingua italiana, schernendosi e prendendosi in giro per il suo buffo modo di esprimersi, al punto di strappare più di qualche applauso e attirare ancor più la simpatia del suo pubblico.
Scongiurata la minaccia di un forte acquazzone che aveva accompagnato l’intero pomeriggio, sotto un cielo sorvolato da grossi gabbiani ingigantiti dalle luci dello show, si è potuto respirare un’atmosfera allegra e rilassata, impreziosita soprattutto dalla stupenda voce del cantante, autentico punto di forza dell’intero spettacolo, che ha fatto passare in secondo piano la band composta da cinque elementi.
19 le canzoni eseguite dal cantante di origini anglo-libanesi, tutte rigorosamente ballabili e ballate anche dallo stesso artista, scatenato nell’arrampicarsi sui tralicci del palco e nel salire sul pianoforte pur di interagire meglio con l’audience, che ha stuzzicato e provocato con le sue canzoni, una fra tutte quella “Boum Boum Boum” del 2014, dal significato e dagli ammiccamenti vagamente allusivi.
Sono naturalmente le canzoni più datate quelle che suscitano il maggior favore della piazza, come “Grace Kelly”, “We are golden”, “Happy Ending”, ”Relax, “Lollypop”, per una chiusura da “Last party” e con “Love today”, l’unico bis comunque ampiamente programmato. Ecco, proprio la fine dello show, giunta inaspettata dopo appena un’ora e quaranta minuti, è stato il momento più ”freddino” della serata, come il modo forse un po’ frettoloso di congedarsi dal pubblico, rimasto perplesso e persino speranzoso di qualche altra appendice canora che, alla fine, purtroppo non c’è stata.
Una serata comunque godibilissima, leggera e senza troppe pretese, arricchita dalla verve e dalla versatilità vocale di un artista che, appena trentaduenne, con alle spalle numerose hits di successo, e soprattutto per quel modo di porsi spontaneo e fuori dagli schemi, è riuscito a far ballare e vivere in spensieratezza un pubblico eterogeneo, composto da adolescenti e persone più mature, non solo triestine ma giunte anche dalla vicina Slovenia, Croazia e persino dall’ Austria. L’emozione di un grande concerto, poi, è un’altra cosa.
29-07-2016 1:07
Massimo “Double X” Barzelatto per Radio City Trieste
Dopo i sold-out al Mediolanum Forum di Milano ed il pienone al Circo Massimo a Roma, gli IRON MAIDEN suonano nella città italiana più Rock degli ultimi anni: TRIESTE!
Che si fa bella e presta per l’occasione il proprio salotto buono: la Piazza Unità d’Italia.
Il tour è quello promozionale al loro nuovo disco di inediti: “The Book Of Souls”, risultato in definitiva di buona fattura, non certo un filler della loro incredibile ed infinita discografia. E bisogna ammettere che anche i nuovi pezzi sono risultati apprezzabili pure dal vivo.
Poche le sorprese, in quanto i Maiden hanno deciso, sin da subito, di proporre la stessa scaletta in ogni sera, per evitare discussioni e polemiche con i fans. Ogni sera (più o meno) lo stesso spettacolo. Più o meno gli stessi discorsi tra una canzone e l’altra. Ciò che cambia è il sito, la collocazione dello show: Piazza Unità risplende in tutta la sua storica maestosità, le luci riflesse dalle onde del mare antistante il palcoscenico.
Un inusuale palcoscenico che ammalia pure Bruce Dickinson che in più di un’occasione ne enfatizza l’assoluta bellezza. Le migliaia di fans provenienti da ogni parte del mondo e che già da giorni hanno invaso Trieste, sono tutte lì, assiepate, pronte a far festa.
L’esaltazione collettiva ed il profumo di questo particolarissimo clima festaiolo, si respirano immediatamente, sin dalle prime note dell’immancabile intro “Doctor Doctor”, che come sempre apre il concerto degli Iron Maiden.
A dire il vero, un antipasto lo si aveva avuto già un’oretta prima, quando il difficile compito di scaldare il pubblico era spettato alla band di apertura: i giovanissimi The Raven Age.
Un nu-metal, melodico e moderno più che onesto che ci offre l’opportunità di conoscere, dopo aver visto sul palco le belle fattezze di Lauren Harris qualche anno fa, anche l’altro figlio d’arte di Steve Harris: il giovane chitarrista George. Il quintetto britannico si sbatte e si impegna (soprattutto con le evoluzioni del loro batterista) e guadagna gli applausi del numerosissimo pubblico, che dopo tante ore di attesa, file interminabili ed aver, fortunatamente solo sfiorato un tornado, ha solamente tanta tanta voglia di musica!
Un teatrale Bruce Dickinson che recita più che cantare, ci accoglie con la nuova “If Eternity Should Fail” primo degli estratti dell’ultimo “The Book Of Souls”, ben supportato dalle scenografie ed un video a tematica Maya, proiettato su due grandi schermi ai lati del mastodontico palcoscenico.
“Speed of Light”, prima della title track “The Book Of Souls” e l’azzeccata “Tears Of A Clown”. Ma è soprattutto, e com’era lecito aspettarsi, con i vecchi cavalli di battaglia “Children of the Damned”, “The Trooper” e “Powerslave” inseriti ad hoc già nella prima oretta di spettacolo, che i Maiden fanno scatenare le migliaia di fans in estasi, che saltano e si sgolano all’unisono, “aiutando” il buon Bruce Dickinson, che in certi momenti, sembra soffrire un po’ con la sua voce. Anche perchè il piccolo grande uomo, reduce da una lunga cura contro il cancro, è la solita ira d’iddio on stage. Il “pilota” è infermabile, salta, corre su e giù dal palco, si agita, brandisce bandiere, cambia più vestiti lui che la scenografia alle sue spalle. Il suo “ Screeeaaaam for meee Trieeesteeee” urlato in più di un’occasione vale da solo il prezzo del biglietto.
Lo spettacolo che ci regalano gli Iron è un mix di emozioni e di ricordi: le pose dell’intramontabile Steve Harris (che ha trovato pure il tempo di giocare un amichevole a calcio, il giorno prima del concerto); il simpatico batterista, Nicko McBrain che si prende pure il lusso di dire due parole di ringraziamento in una pausa; i riffoni sparati a tutto volume dai tre incredibili chitarristi (divertentissimi i balletti e le mosse di uno scatenato Janick Gers), con Adrian Smith a supportare nel canto il vocalist in più di un’occasione; e lui: la mascotte Eddie the Head, che come da copione, invade il palco in più di un’occasione.
Autentiche ovazioni vengono riservate ai grandissimi successi del passato. Soprattutto nel finalone da pelle d’oca: “Hallowed Be Thy Name”, “Fear Of The Dark” e la super classica “Iron Maiden”.
Nemmeno tempo di tirare il fiato che inizano i bis. La clamorosa “The Number Of The Beast” che fa tremare le chiese vicine con il 6 – 6 – 6 urlato da tutti i seguaci della Vergine di Ferro. La meno datata “Blood Brothers” (da “Brave New World”) introdotta da un commovente messaggio da nobel della pace da parte del vocalist, che ci fa sentire ancor di più tutti fratelli ed amici, in tempi così cupi e tristi in cui sembra che ci sia lo spazio solo per l’odio e le violenze. Per una sera, noi qui, siamo parte tutti di un’unica famiglia, e quando finisce tutto con “Wasted Years” non sappiamo se le gocce che abbiamo sul viso siano causate dal sudore o dalle lacrime di commozione e di gioia.Mai come oggi, mai più di oggi, tutti ad urlare: UP THE IRONS!
21-07-2016 22:02 Carlo Cimino per Radio City Trieste
La tappa del tour di Steve Hackett che Mercoledì 20 Luglio, con l’organizzazione di Azalea Promotion, è andata in scena alla diga Nazario Sauro di Grado poteva essere una trappola.
Eh, si. Intanto il nostro, signore di sessantasei anni suonati poteva giocare sul nome e sulla maestria a tenere il palco per intrattenere un pugno di fans ben disposti ad ascoltarlo.
E poi la caratteristica del tutto originale dello spettacolo “Acoustic Trio” era un grande rischio per chi andava ad assistere allo show. Difatti alcune file di posti erano state tolte rispetto al precedente “The best of Jethro Tull” di soli quattro giorni prima, e quindi anche i biglietti venduti erano di meno.
Tuttavia qui non stiamo parlando di un’acerba stellina di X Factor ne di un marpione che va sul sicuro e conta tutto sulla sua presenza scenica e sul mestiere per timbrare il cartellino e portarsi a casa un facile cachet (vedi Ian Anderson). Qui parliamo di un mostro sacro, dell’inventore del sound dei Genesis degli anni settanta, un artista che ha accettato di rischiare in prima persona presentando anche pezzi inediti.Dei cinque Genesis lui ormai è l’unico che produce ancora qualcosa di dignitoso, gli altri (Peter Gabriel a parte per il quale sospendiamo il giudizio) sono oramai “non pervenuti”.
Lui no. Si presenta sul palco da solo e attacca dieci minuti di solo guitar rischioso, perché adatto ai soli tecnici dello strumento. Ci infila anche i suoi eterni classici, “Horizons” e “Blood On The Rooftops”, ma è la parte centrale del concerto la più interessante. Entrano due fedelissimi sodali, il tastierista Roger King e il fiatista Rob Townsend, munito di due flauti, un oboe e un ottavino di cui fa largo uso. I pezzi sono quelli meno elettrici di Steve, ovviamente. Così in successione possiamo ascoltare un estratto da “Supper’s Ready”, “After The Ordeal”, una sorprendente ed emozionante “Hairless Heart”, ma pure le elettriche “Jacuzzi”, da “Defector” e una bellissima versione di “Ace Of Wands” dove, le parti di chitarra elettrica sono eseguite da Townsend ai fiati e la canzone è automaticamente trasformata in acustica senza perdere nulla della sua forza originale.
Non mancano neppure l’immancabile intro di “Firth Of Fifth” e due rivelanti pezzi nuovi, dal disco che il nostro ha in uscita: “The House Of The Faun” e “Walking Away From Rainbows”.
Insomma, un ora e mezza per un pubblico interessato e compiaciuto, anche dalla simpatia di Hackett, lontanissimo dal timido barbuto chitarrista che si nascondeva dietro alla sei corde ai tempi dei Genesis. Oggi Steve parla, scherza, si bea della presenza del pubblico e osa, come detto, una scaletta impegnativa, che copre i suoi lavori migliori, “Voyage Of The Acolyte”, “Spectral Mornings” e “Defector”, ma anche medley di pezzi classici di Bach.
Tutto bene? Se dovessimo trovare un difetto, forse avrebbe potuto sfruttare la bravura di Roger King ed eseguire anche qualche pezzo cantato, e poi la scelta della scaletta avrebbe potuto essere migliore, termina da solo con King alle tastiere e senza Townsend che, a mio parere avrebbe nobilitato il bis che appare un poco deboluccio.
Comunque a noi agguerriti Fans la serata è stata un altro tassello positivo della carriera di Hackett, in attesa del nuovo disco che, viste le premesse, promette di essere veramente ottimo.
20-07-2016 9:43 Fabio Ferri (Spirit of the Night) per Radio City Trieste
Serata pirotecnica al Folkest di Spilimbergo in compagnia del grande batterista Billy Cobham e della sua fantastica band.
Billy Cobham non ha certo bisogno di presentazioni,tanto che è stato insignito del titolo di maestro mondiale nel suo strumento. L’energia e la scioltezza nel ”picchiare” sui tamburi rendono il suo sound praticamente unico.E poi ha una caratteristica non comune fra i batteristi, l’ essere ambidestro. Nonostante l’eta’ il mitico Billy Cobham si fa ancora sentire ed apprezzare, come sa fare solo un grandissimo musicista.Simpatico, modesto ma carismatico al contempo, il drummer ha anche una lunghissima storia come produttore e compositore. Per oltre trent’anni ha ricevuto ogni genere di riconoscimento internazionale come eccezionale batterista. Billy Cobham con la sua precisione, la sua energia e la sua grinta di batterista, ha applicato la stessa energia nella sua monumentale lista di successi. Ha suonato in centinaia di dischi con gruppi suoi e molte leggende della musica.Il suo segno distintivo, il più veloce,il più potente e il più esplosivo drumming, Billy ha trasmesso la sua energia sui palchi internazionali di concerti, orchestre sinfoniche, big band, Broadway, festival, televisione e video.
Come insegnante nella sua arte ha tenuto corsi e seminari in tutto il mondo. La sua influenza stilistica ha letteralmente creato una categoria musicale, ormai parte della storia della musica dei giorni nostri e del futuro, nello spirito della world music.
In una piazza del Duomo stracolma di fans esultanti e prodighi di applausi, Billy Cobham si è fatto accompagnare da una band di altissimo livello, con il talentuoso Jean Marie Ecay alla chitarra elettrica, Christian Galvez al basso, Steve Hamilton al piano, e la poliedrica Camelia Ben Naceur alle tastiere.
Due ore di suggestioni e di vibrazioni in cui Billy Cobham ha proposto alcuni brani del suo nuovo lavoro alternati a dei classici ”Cobhamniani” senza tempo, tra cui Stratus, Red Baron, Quadrant 4, Hip Pockets, To the Woman in My Life e The Pleasant Pheasant.
Inutile aggiungere altro, se non lo avete ancora capito, ad ogni concerto di Billy Cobham si ha sempre la netta sensazione di trovarsi al cospetto di un capolavoro.
13-06-2016 15:49 Alice Cooper diverte e strapazza Lubiana: l’horror comico a suon di hard rock
Macabro, divertente e allo stesso tempo molto spettacolare, sicuramente carico di energia e dai ritmi alti e costanti, è in sintesi il commento alla performance offerta da Alice Cooper al Dvorana Tivoli di Lubiana.
Con circa una quindicina di minuti di ritardo sull’orario previsto, è andata in scena quella che potremmo definire più un’opera rock o un musical hard rock, che a un semplice concerto, visto tutti gli elementi scenici che hanno caratterizzato l’intera performance, quali bambole, mostri, costumi insanguinati, una macchina elettrica, e persino una ghigliottina con tanto di taglio della testa finale, il tutto naturalmente sotto un trucco facciale dalle sembianze cadaveriche, autentico marchio di fabbrica del cantante e molto caro ai fans, a giudicare dalle repliche in platea e sugli spalti .
Poco più di venti le canzoni proposte da Alice Cooper – all’anagrafe Vincent Damon Furnier, classe 1948 – nel corso dei 90 minuti previsti al Dvorana Tivoli che ha dimostrato di gradire l’intera performance vista la viva partecipazione, specialmente da parte del pubblico in parterre, pur senza aver registrato il sold out, uno di quei tanti caso dove gli assenti hanno avuto comunque torto.
Tra i brani della scaletta, non sono mancate le hits come “No more Mr. nice guy”, “Woman of mass destruction”, “Feed my Frankenstein”, “Killer” e “”Under my wheels” mentre “Poison”, preceduta da un assolo alla chitarra della bravissima oltre che bellissima chitarrista californiana Nita Strauss, che ha volutamente messo a dura prova le orecchie della platea, è stata sicuramente tra le canzoni più apprezzate della serata.
Supportato costantemente da un’ottima band di cinque elementi – Nita Strauss, Ryan Roxie, Tommy Henriksen, Chuck Garric e Glen Sobel – , che nell’arco della serata ha avuto la possibilità di dimostrare tutta la propria bravura grazie ad ampi spazi opportunamente studiati anche per consentire i numerosi cambi di costume del cantante, lo spettacolo non ha registrato minimamente cali di tensione, tenendo sempre livello e partecipazione del pubblico molto alta.
E, se il cantante statunitense non si è prodigato più di tanto a parole nel relazionarsi con i fans, li ha comunque ripagati con il suo atteggiamento provocatore e a tratti istrionico, sempre a suon di musica hard rock con più di qualche sconfinamento nel metal, spinta letteralmente sull’acceleratore senza sosta, eccezion fatta per l’unica canzone più soft dell’intera serata, “Only woman bleed” .
Tra bambole di gomma e mostri rigenerati da macchine impossibili, cambi di costumi e di scena, non sono mancati comunque momenti toccanti con gli omaggi musicali agli scomparsi Keith Moon, Jimi Hendrix (Fire), David Bowie (Suffragette city) e Lemmy Kilmister (Ace of Spades), oltre alle cover degli Who (Pinball Wizard) e dei Pink Floyd (Another brick in the wall), quest’ultima all’interno della canzone “School’s out”, e che ben si sono inserite nell’intero contesto dello spettacolo.
A chiudere la serata, l’unico bis, “Elected” (1997), rappresentata da due attori con le sembianze di Hillary Clinton e Donald Trump per una lotta elettorale molto fisica e poco verbale, che non ha risparmiato colpi bassi e dunque scorretta – ma la realtà è così poi tanto diversa? – naturalmente sotto la regia divertita del cantante di Detroit, vestito per l’occasione con giacca e tuba a stelle e strisce.
Per una serata dunque, la vita, la morte e i miracoli di Alice Cooper, un cantante eclettico e trasformista che, a dispetto di suoi 68 anni, dimostra di avere tanta energia e ancora una voce in grado di coinvolgere il pubblico, al di là degli stravaganti costumi e trucchi di scena per una narrativa zombie horror sempre piacevole, uno spettacolo nello spettacolo.
Mamma, ho visto Alice Cooper, niente sarà più come prima.
Roberto Alessio per www.radiocitytrieste.it
28-04-2016 1:08 Steven Wilson e i fantasmi. Fantasmi delle other stories di “The Raven That Refused To Sing” (2013), il fantasma di Joyce Carol Vincent, (ragazza trovata morta nel suo appartamento a Londra nel 2006, dopo che il suo corpo era rimasto lì per più di due anni) la cui storia è la principale fonte di ispirazione per il suo (pen)ultimo album, “Hand. Cannot. Erase” (2015); e ancora, è un EP di fantasmi anche “4 ½” (2016), dal momento che è composto da brani che non avevano trovato posto nei suoi due precedenti lavori, ma che sono immersi fino all’orlo nel loro spirito compositivo; quasi delle ghost track, appunto, portate finalmente alla luce.
Non c’è niente da fare, da qualunque parte lo si voglia guardare, quello di Steven Wilson è un percorso costellato dalla figura del fantasma.
E l’ingresso nel Politeama Rossetti di Trieste, per la prima delle quattro date italiane di questa seconda parte del suo “Hand. Cannot. Erase. Tour”, organizzato da Azalea Promotion, non fa che ribadire il concetto: nebbia, atmosfera tanto affascinante quanto lugubre, luci bluastre; è l’ingresso di un cimitero. Un cimitero in cui Wilson e la sua band stanno per riportare letteralmente in vita i fantasmi.
E ancora, un cimitero in cui loro stessi stanno per diventare fantasmi, a un tempo visibili e invisibili, corporei e, appunto, fantasmatici. Alle 21 precise le luci si spengono. Sullo schermo alle spalle della strumentazione compare un video che riporta ambienti urbani. Rumore di pioggia e un vociare insistente di bambini, una base elettronica minimale e ossessiva. È l’inizio di “First Regret”, frammento che apre “H. C. E.”. Il concerto è iniziato ma sul palco non c’è ancora nessuno. In platea qualcuno applaude, qualcun altro fischia nel tentativo di chiamare la band. Tanti chiacchierano. La base di “First Regret” prosegue per altri cinque minuti abbondanti, il tempo passa, ma dei musicisti neanche l’ombra. Il concerto è iniziato senza di loro. Ancora una volta, la loro presenza fantasmatica pervade la scena. Man mano che il tempo passa, il pulsare ossessivo si trasforma in una (s)piacevole sensazione di alienazione urbana. Ed è tutto qui il tema centrale del suo ultimo album, materializzato all’ennesima potenza in un inizio mai così perfetto, necessario quanto lo schermo nero in apertura di “2001: Odissea nello Spazio” di Kubrick.
Dopo una decina di minuti ecco che entra in scena Adam Holzmann, ad introdurre il primo tema tastieristico dell’album e poco dopo arrivano anche Wilson (sfoggiando una maglietta in memoria di David Bowie) e gli altri componenti della band, in un boato di applausi. Da fantasmi si fanno corpi, un processo che, come vedremo in seguito, verrà ripetuto nel corso dello spettacolo, secondo diverse modalità.
La prima parte del concerto è dedicata all’esecuzione integrale di “H. C. E.”; uno schema predefinito dunque, che però riserva già le prime grandi sorprese. L’album del 2015 infatti ha un potenziale dal vivo veramente imponente, superiore perfino al suo capolavoro “The Raven That Refused To Sing”; rispetto a quest’ultimo, “H.C.E.” è un disco molto più caldo, meno complesso dal punto di vista strumentale, molto più aperto per tutti i musicisti. Se i concerti di “The Raven…” si risolvevano in una mera(vigliosa) esecuzione letterale dell’album (con Wilson che si ritrovava a muoversi a mo’ di direttore d’orchestra per coordinare i diversi strumenti), in questo caso la maggiore libertà offerta dalla struttura del nuovo disco, consente non solo di eseguire, ma anche di interpretare. “H.C.E.” eseguito dal vivo non è H.C.E. in versione album. Certo, non stiamo parlando di grandi reinterpretazioni o riarrangiamenti, le due versioni sono comunque vicine (e non potrebbe essere altrimenti, vista la cura maniacale di Wilson per tutti gli aspetti del suono); ma vis(su)to eseguire davanti agli occhi, ogni brano arriva con un’immersione davvero travolgente, della quale, al primo ascolto casalingo dell’album, avevamo appena intuito lo sterminato potenziale.
Questa prima parte acquista dunque un’omogeneità e una densità strabiliante, evidente fin dalla cavalcata di “3 Years Older”, che già mette in luce la maggiore libertà di cui godono tutti i musicisti. L’intermezzo strumentale di questa mini suite di oltre 10 minuti è retto da uno strabiliante assolo di Holzmann, che si ripeterà poco dopo su “Regret #9”, probabilmente il miglior momento di questa prima parte del concerto: assolo di Holzmann (da far impallidire il Patrick Moraz degli Yes di “Relayer”), seguito dalla chitarra di Kilminster. Ed è già standing ovation per gran parte della platea.
Dopo la fragilissima “Transience”, è il turno di “Ancestral”, il pezzo più lungo dell’album, dalla struttura simile (ma perfezionata) a “Russia On Ice”, uno dei cavalli di battaglia dei Porcupine Tree (da “Lightbulb Sun”, 2000). Il riff intrecciato di chitarre nella seconda parte del brano travolge letteralmente il pubblico, sostenuto da un comparto luci mai così creativo e coinvolgente (perfetto anche nell’interpretare il twist aggressivo di “Routine”, uno dei momenti più toccanti dell’album).
Chiudono questa prima parte la struggente “Happy Returns” e la coda “Ascendant Here On”.
Si accendono le luci, quindici minuti di pausa.
La pausa prima del ritorno dei fantasmi, che si presenteranno, nel secondo set, da un lato indossando le vesti dei Porcupine Tree, dall’altro richiamando alla memoria David Bowie e Prince, i quali, come spiega Wilson, sono stati fondamentali per la sua crescita creativa. La seconda parte è tutta un imprevedibile amarcord musicale (anche in questo caso, scelta molto coerente: più degli altri, “H.C.E.” è un album in cui confluiscono naturalmente tutti i suoi percorsi, dai No-Man, ai Porcupine Tree, ai Blackfield) e inizia proprio con “Dark Matter”, brano dei Porcupine (ma scritto interamente da Wilson, come tutti quelli pescati dal repertorio del gruppo) del lontano ’96, dall’album “Signify”.
E fa parte del repertorio dei Porcupine anche “Lazarus”, introdotta da un lungo e commosso discorso, in cui Wilson spiega il motivo per cui l’esecuzione di questo brano vuole essere il suo omaggio a Bowie (in alcuni dei concerti precedenti eseguiva “Space Oddity”). La coincidenza del titolo con l’ultimo singolo rilasciato dal Duca e soprattutto il verso “My David don’t you worry, this cold world is not for you”, riescono a trasformare completamente il senso del brano; e quel verso, in questo nuovo contesto, è stato il momento più commovente e sentito di tutta la seconda parte. Un momento in cui i fantasmi, tutti i fantasmi, si sono finalmente incontrati, hanno danzato per noi, ci hanno ricordato che la loro presenza, nonostante tutto, è più forte che mai; e hanno donato un nuovo e vivissimo senso a qualcosa che tutti i fan conoscevano a memoria. Da mettere i brividi.
Prima di “Lazarus”, una sempre convincente “Harmony Korine”, “My Book of Regrets” da “4 ½” e “Index”, in una meravigliosa versione che stravolge completamente l’arrangiamento della prima parte (sostenuta in questo caso dal solo schioccare delle dita), rispetto alla registrazione in studio. L’esecuzione di “Don’t Hate Me” è un ibrido tra la versione di “Stupid Dream” (1999) e quella di “4 ½” (rispetto a quest’ultima perde la voce femminile di Ninet Tayeb sul ritornello, ma mantiene il nuovo arrangiamento nelle parti strumentali), per poi chiudere con la devastante “Vermilioncore” (ancora fantasmi: ricordate “Wedding Nails” da “In Absentia”?) tratta sempre da “4 ½” e “Sleep Together”, repertorio Porcupine (“Fear of a Blank Planet”, 2007).
Per questi ultimi due brani, Wilson ricicla (e ancora, perfeziona), un coup de théâtre già utilizzato nel tour precedente: un telo semitrasparente cade all’estremità del palco, separando i musicisti dal pubblico. Wilson e la band si trovano ad essere di nuovo delle presenze spettrali, dai contorni non ben definiti, costretti in un altro mondo, quello del palco, al di là (aldilà), dello spazio occupato dal pubblico. Sul telo vengono proiettate altre immagini, che si sommano a quelle dello schermo sullo sfondo, aggredendo e disorientando i sensi dello spettatore, moltiplicando la percezione dello spazio.
Finita “Sleep Together”, il telo crolla, i fantasmi tornano corpi, ma la band esce di scena, acclamata a gran voce dal pubblico in visibilio, che intanto ha già abbandonato le proprie poltroncine e si è andato a posizionare sotto il palco (“Please, feel free to show your enthusiasm whenever you want!” aveva detto Wilson subito all’inizio dello spettacolo).
Solo un paio di minuti e Wilson torna in scena, per l’immancabile encore. E qui i fantasmi regnano davvero sovrani: si parte con il preannunciato omaggio a Prince (un’ispirata “Sign “☮” the Times”), per poi passare a “The Sound of Muzak” (ancora Porcupine, da “In Absentia”, 2002), e gran finale con “The Raven That Refused To Sing”, quintessenza della spettralità della poetica Wilsoniana (per sua stessa ammissione il più bel brano che lui abbia mai composto).
Una rapida occhiata all’orologio ci dice che è mezzanotte e un quarto. Sottraendo i 15 minuti di pausa fra il primo e il secondo set, fanno esattamente tre ore di show, senza un minimo di respiro. Uno spettacolo in cui Wilson, fedele al suo desiderio di non voler mai fare la stessa cosa due volte, è riuscito nella non facile impresa di superare se stesso, realizzando quello che ad oggi è probabilmente il suo spettacolo più entusiasmante e convincente. Uno show di gran lunga più avvolgente rispetto alla mostruosa (ma leggermente più fredda) dimostrazione di forza e tecnica del tour precedente e in cui perfino la sua capacità di interazione col pubblico (da sempre uno degli aspetti più criticati e problematici delle sue esibizioni) si è dimostrata davvero sorprendente.
A tutto questo, si aggiunge una band forse mai così affiatata: oltre alle colonne portanti Holzmann e Beggs, troviamo il talentuoso Dave Kilminster alla chitarra (per molti anni con Roger Waters e Keith Emerson) e Craig Blundell alla batteria, davvero incisivo e capace di sfruttare ogni momento di libertà creativa per imprimere il suo marchio. Durante il concerto Wilson non ha perso occasione per ribadire che questa è “The best band I’ve ever had”. Probabilmente è vero.
Così come è vero che uno show di questo livello difficilmente si cancella dalla memoria.
Lunga vita a Steven Wilson.
Lunga vita ai fantasmi.
Marco “Mr. Pink” Catenacci (Interstellar Overdrive – Radio City Trieste)
28-04-2016 0:16 Azalea Promotion porta a Trieste la nona tappa del tour ”The 12th Room” del pianista,compositore e direttore d’orchestra Ezio Bosso, in un Teatro Rossetti gremito all’inverosimile (d’altronde ogni concerto dell’artista torinese risulta essere ”Sold Out” già dai primi giorni di prevendita).
Ezio Bosso,44 anni, ha imparato a leggere lo spartito ancor prima delle lettere, e a 4 anni già suonava. Da ragazzino per 3 anni è stato bassista degli Statuto, presto abbandonati per la musica classica. A 16 anni il debutto come solista. Compositore, direttore (anche della London Symphony), ha firmato anche la colonna sonora di ”Io non ho paura” di Gabriele Salvatores e di altri celeberrimi film. Nel 2011 ha dovuto sottoporsi ad un intervento al cervello, per l’asportazione di una neoplasia che lo ha precipitato, parole sue, in ”una storia di buio”. Dopo l’intervento infatti è stato colpito da una malattia autoimmune. Aveva disimparato a parlare e a suonare, ha dovuto riapprendere tutto. Ma non si è fermato.
Solo nel 2015 ha inciso il primo disco ”The 12th Room”, doppio cd per piano solo registrato con il pubblico in sala a Gualtieri (Reggio Emilia).
Ezio Bosso si esibisce con il suo “amico” Pianoforte Gran Coda Steinway & Son della collezione Bussotti-Fabbrini, appositamente preparato sulle specifiche dal Maestro Piero Azzola, e utilizza uno sgabello versatile e di supporto chiamato “12” e nato dalla collaborazione con l’architetto Simone Gheduzzi di Diverse Righe Studio. Il concerto ha regalato una miriade di emozioni e di suggestioni, e più di qualche spettatore presente in sala ha avuto le lacrime agli occhi, vista l’intensità, il trasporto e il tourbillon emotivo che il simpaticissimo e disponibilissimo artista ha regalato ad ognuno di noi.
Prima di eseguire ogni brano, Ezio Bosso ha dato delle ”dettagliate” spiegazioni sulla costruzione e ”sull’anima” dello stesso, citando altresì Chopin, Liszt,, Thierrèe, Emily Dickinson e molti altri artisti che per la sua musica sono stati di fondamentale importanza. La musica come la vita si può fare solo in un modo, Insieme. La musica è una vera magia, è la nostra vera terapia. Queste sono le frasi delle quali Bosso fa un vero e proprio modus vivendi, e che noi approviamo in toto.
The 12th Room, ovverossia 12 stanze, è il titolo del suo primo album, ed Ezio lo racconta così: “Si dice che la vita sia composta da 12 stanze. 12 stanze in cui lasceremo qualcosa di noi che ci ricorderanno. 12 le stanze che ricorderemo quando saremo arrivati all’ultima. Nessuno può ricordare la prima stanza dove è stato, ma pare che questo accada nell’ultima che raggiungeremo. Stanza significa fermarsi, ma significa anche affermarsi. Tre ore di concerto ad alto voltaggio emotivo, diviso in 2 set con un breve intervallo di 5 minuti tra un tempo e l’altro. The God’s Room, Following a Bird, The Burned Room, The Building Room, The Smallest Room, The Waiting Room, The Breakfast Room, sono state delle gemme preziose regalate da Ezio Bosso a noi comuni mortali. La vita è una sfida, ed Ezio Bosso ci ha dato una grande lezione di vita, di coraggio e di crescita, ed ognuno di noi ha provato in questa magnifica serata delle emozioni indescrivibili, grazie alla sua musica penetrante e ricca di vibrazioni. Questa sera ho scoperto un grandissimo poeta e musicista con una forza e una sensibilità meravigliose. Un artista di gran classe, perfetto e penetrante come la sua musica, con un cuore infinitamente grande.
Emozione pura! Grazie di tutto Ezio, buona vita e buona musica…sempre!!!
Fabio Ferri (Spirit of the Night – Radio City Trieste)
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