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TRIESTE – Non provare alcuna emozione durante una delle esibizioni di STOMP è praticamente impossibile.
Ci sono diversi fattori che fanno apprezzare questo spettacolo che in quasi trent’anni di vita ha collezionato premi, ha raggiunto record di incassi e vanta una serie di repliche che proseguono in tutto il mondo; anche in strutture che li ospitano stabilmente.
Quando si arriva a questo punto, come tutti gli spettacoli che acquisiscono una certa notorietà e richiesta, è necessario ampliare l’organico e STOMP attualmente è impegnato in una tournée mondiale con cinque compagnie composte da una dozzina di artisti di cui otto per volta salgono sul palco ad ogni replica.
L’originalità degli autori Luke Cresswell e Steve McNicholas (anch’essi performer) ha portato STOMP sino al connubio con alcuni celebri marchi per la realizzazione di sorprendenti spot televisivi.
Quattro i passaggi in totale a Trieste da quella prima volta avvenuta nel 1999 e di ritorno in città al Teatro Rossetti dopo alcuni anni di assenza (evento organizzato assieme a Terry Chegia), lo spettacolo fa il pienone ancora una volta confermando d’essere un’ottima scelta per l’inserimento in cartellone di una stagione artistica.
STOMP è avvincente perché rappresenta la quotidianità urbana messa in musica mediante oggetti di comune e quotidiano utilizzo.  Alla base di tutto troviamo il ritmo, i colpi, lo scandire del tempo. La prima forma di musica che ascoltiamo durante la nostra vita è proprio un battito, quello materno quando stiamo in grembo.
Sorprendono i performer che danno vita a questa rappresentazione artistica completa ed inimitabile dove danza, recitazione, musica e ritmica si uniscono in una sola forma.
La scenografia riporta ad un ambiente metropolitano dove ramazze, secchi di vernice, cartelli stradali, carrelli della spesa e fogli di giornale diventano protagonisti sulla scena dando vita ad un vero e proprio concerto. Ogni giorno potremmo assistere a performance di questo tipo. Quante volte, e non solo da bambini, abbiamo provato a percuotere qualche oggetto per fare musica anche solo per scherzare?
Le selezioni degli aspiranti stomper immagino siano veramente difficili, e altrettanto difficili devono essere da imparare le varie figure da eseguire in scena.
Se non hai il senso del ritmo non fa per te, se non sai ballare allora lascia stare. Scarponi pesanti ai piedi degli otto attori per un Tip-tap da marciapiede catramato scuotono il teatro che trema al rimbombo del loro pestare.
Acquai metallici da cucina che diventano drum set portatili, oppure accendini in perfetta sequenza non solo suonano ma creano un piacevole gioco di lieve illuminazione con le fioche fiammelle nella sala buia per il momento. E poi la bellissima coreografia con i bastoni oppure l’incantevole ed inaspettata melodia prodotta dai tubi di gomma percossi a dovere.
Il momento tanto atteso, quello più conosciuto di STOMP, è la sequenza ritmica dei bidoni metallici divisi in due squadre di pari elementi che sembrano sfidarsi sul palcoscenico mentre un bidone di plastica scandisce il tempo con un potente suono profondo.
La stessa scena è stata proposta nel pomeriggio del debutto in Piazza Unità davanti al palazzo del Comune. Una sorta di benvenuto con un bel numero di presenti.
Così anche quest’anno la stagione teatrale volge al termine. Nulla di meglio per il Teatro Rossetti per congedarsi dal proprio pubblico.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

foto da www.ilrossetti.it

 

 

TRIESTE – Già da diverse ore si è chiuso il sipario del Teatro Rossetti su quello che è stato il concerto evento di Paolo Conte assente da troppi anni dalla nostra regione.
Oramai è notte fonda quando sto scrivendo queste righe e l’adrenalina non vuole saperne di lasciarmi dormire.
Quando si parla di Conte che suona dal vivo si sa benissimo a cosa si va incontro, e scrivere di lui e delle sue esibizioni non è affatto facile.
Tutta una serie di fattori legati a questo artista fanno sì che attorno a lui si sia creato il mitico personaggio Conte, un’autentica leggenda vivente capace di ammaliare le più esigenti platee del mondo.
Immenso ed enigmatico nel modo di creare la sua arte, attorno al suo nome ruotano situazioni ed atmosfere create dalla musica, mentre personaggi e luoghi, a volte immaginari e a volte reali perché incontrati o visitati nel corso delle sue esperienze di vita, vengono descritti nei suoi testi; in certi casi tutto questo è addirittura tradotto in disegni firmati dallo stesso Conte.
Per comprendere e conoscere al meglio questo artista è indispensabile il libro Quanta strada nei miei sandali: in viaggio con Paolo Conte, scritto da Cesare Romana.
Avvocato in primis, poi autore ed infine musicista jazz con la passione del disegno sin da quando era bambino, Paolo Conte irrompe sulle scene discografiche nel 1974 con un disco che porta il suo nome e lo fa dopo aver firmato, per altri cantanti prima di lui, brani diventati celebri.
Insieme a te non ci sto più, Onda su Onda, Messico e Nuvole, Tripoli ’69 e Genova per noi sono alcuni dei suoi titoli più conosciuti ma, sopra tutti c’è quella Azzurro pubblicata nel 1968 e portata al successo da Celentano, brano fortunato e datato che viene scelto per dare il nome a questo tour celebrativo passato anche per Trieste in questa anomala primavera.
Una serata organizzata dal Politeama Rossetti in collaborazione con Concerto Music, dove musica e solidarietà nuovamente si sono unite, questa volta a favore del Comitato Friuli Venezia Giulia AIRC per raccogliere fondi a sostegno dei migliori progetti di ricerca per la cura dei tumori pediatrici.
Dicevamo del concerto celebrativo dal titolo 50 years of Azzurro (50 anni di Azzurro) appunto, svoltosi in un teatro pieno zeppo dove non c’era più nemmeno un posto libero.
In Italia come all’estero, Conte e la sua orchestra registrano sold out in ogni dove, così come in quella Parigi che non solo si prenota i suoi spettacoli per diverse repliche ma che gli concede anche l’onore di pregiate onorificenze cittadine.
Ecco quindi che anche il pubblico triestino non è da meno ed è impaziente di sentirlo cantare con quella voce particolare che, per quanto grigia sia, riesce a dare colore e riscaldare l’ascoltatore, inserendosi perfettamente nella cornice del mondo contiano.Il sipario si apre, lo spettacolo inizia e tra passaggi virtuosi e suadenti melodie che sanno come coccolare l’ascoltatore, lo spettacolo cattura, rapisce e ci porta dove l’immaginazione vuole, proprio come desidera l’artista che per questo motivo, al contrario di tanti suoi colleghi, non si rivolge mai al pubblico se non con gesti e sorrisi di compiacimento durante le piogge di applausi tra un brano e l’altro. Questo è ciò che preferisce, il riconoscimento da parte del pubblico.
Da dietro al pianoforte il direttore d’orchestra dirige la serata che è una continua sfilata di successi, da Come Di (eseguita con l’immancabile kazoo, strumento sì abbinato da sempre al mondo del Jazz ma in particolar modo associato al repertorio di Conte in quanto sin dai suoi esordi, in mancanza di una band per motivi di denaro, lo accompagnava assieme al pianoforte per riempire le sue esibizioni), a Sotto le stelle del Jazz, da Alle prese con una verde Milonga alle nostalgiche melodie di Giochi d’azzardo e la bellissima Gli impermeabili, brano capace di alimentare emozioni sino in chiusura quando uno strepitoso assolo di sax regala l’atmosfera di un film d’altri tempi, una di quelle pellicole che fanno incetta di premi e lacrime.

Via con me è il brano più conosciuto e l’unico per cui il pubblico disturba l’esibizione scandendo il tempo con le mani.
Ma il meglio deve ancora venire e sarà servito da lì a poco. Ecco che dopo la classe di Max, sostenuta da un ottimo suono di marimba, ad un passo dalla chiusura arriva Diavolo Rosso, ovvero dodici minuti di estasi.
Il brano, il cui protagonista è nuovamente un ciclista (questa volta si tratta di  Giovanni Gerbi, astigiano e concittadino di Conte), è una cavalcata potente e irruenta che mette in risalto l’orchestra. La precisa ritmica alla batteria da parte di Daniele Di Gregorio e la linea di basso di Jino Touche indicano la strada mentre le tre chitarre (Daniele Dall’Omo, Nunzio Barbieri e Luca Enipeo),  tengono il pubblico con il fiato sospeso fino alla conclusione dei tre assolo di clarinetto, fisarmonica e violino eseguiti rispettivamente da Luca Velotti, Massimo Pitzianti e Piergiorgio Rosso che incendiano gli strumenti e mandano in visibilio il pubblico. Alla fine del brano sarà “standing ovation”.
C’è spazio ancora per un brano in chiusura e quindi si parte con Le chic et le charme, al termine del quale Conte che si congeda dal pubblico uscendo di scena suonando il kazoo.
Dopo ottanta minuti il sipario si chiude, il pubblico grida, acclama e si spella le mani applaudendo.
A luci accese in sala, Conte farà una sola apparizione per saluti e ringraziamento senza concedere alcun bis, alimentando il dubbio che, forse, qualche brano sia stato “tagliato” dalla setlist.
Gli spettatori per sette minuti non accennano a volersene andare mentre, fuori dal teatro, gira già la voce che Conte sia uscito per primo, in fretta e furia, per fuggire a prendere un volo a Venezia. Però…il signor Conte…classe 1937, non lo si vedeva in Regione dal 2007 (Villa Manin) e a Trieste dal 2002 (Teatro Rossetti), chissà se lo rivedremo nuovamente.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Franco Pellizzaro

UDINE – Parlare di John Mayall significa raccontare di un gigante, di un mito che ha fatto la storia della musica.
Grazie a lui e a Alexis Korner, il mondo musicale ha avuto “materia prima” per crescere e moltiplicare.
Non per nulla è stato nominato The Godfather of the British Blues (il padrino del Blues Britannico), realizzando dischi uno dietro all’altro già a partire dal 1965 ed anche scoprendo di grandi talenti come Eric Clapton, Mick Taylor e Peter Green.
Andare a vedere uno di questi personaggi oramai non più giovani (ottantacinque primavere e ancora “on the road”), significa stare davanti ad un’autentica leggenda vivente.
Pochi, arrivati a questo punto, possono avere ancora qualcosa da dire e, in certi casi, ci si trova ad assistere solamente ad una celebrazione del personaggio.Le cronache che sono riuscito a consultare raccontano di Mayall già in Regione al Palazzetto dello Sport di Gorizia il 15 dicembre del 1982, con uno svogliatissimo (così ricordano i presenti) ma eccezionale Mick Taylor a suonare la chitarra seduto a bordo palco.
Poi fu la volta di Trieste al Castello di San Giusto ed era l’estate del 1984, più precisamente il 13 luglio.
In quell’occasione si presentò nel Capoluogo con i Bluesbreakers, sua creatura fondata e sciolta in diverse occasioni.
Esattamente vent’anni dopo arrivò al Castello di Udine nell’ambito del Folkest, e per l’occasione, con gran sorpresa dei presenti, sul palco assieme a lui per il brano di apertura e altri due in chiusura, come special guest, alla chitarra si esibì Rudy Rotta, Bluesman italiano molto apprezzato in tutto il mondo durante la sua carriera.
Ulteriore nota per questa passata tappa va rivolta alla band, in quanto era la stessa massiccia formazione che l’anno prima aveva accompagnato Mayall per il concerto celebrativo dei suoi primi settant’anni, occasione alla quale presero parte anche i suoi già citati pupilli Clapton e Taylor.

Ma torniamo alla serata di Udine di questo inizio primavera, quando è andato in scena un autentico evento e per il quale abbiamo trovato al Teatro Nuovo Giovanni da Udine un folto pubblico di musicofili e amanti del Blues che non si sono lasciati sfuggire questa ghiotta opportunità offerta dall’ottima organizzazione a cura di Azalea.

Il ruolo del supporter in queste occasioni è veramente un incarico di responsabilità. Devi essere all’altezza della situazione, reggere il confronto con la big star e soddisfare gli spettatori che non si accontenteranno facilmente.
Saggiamente nel nostro caso la scelta è caduta sul sardo Francesco Piu, ottimo chitarrista del genere, che ha provveduto a riscaldare il pubblico come si deve.
Non per nulla nel 2017 è stato scelto pure lui come interprete da inserire nella compilation The Blues Master: an italian tribute, una raccolta di brani di artisti storici del Blues risuonati da nomi eccellenti del Bel Paese come Guido Toffoletti, The Cyborgs e il nostro orgoglio cittadino Mike Sponza (presente anche lui tra il pubblico), che per questo tributo discografico ha rivisitato un brano dello stesso Mayall dal titolo Little girl.
La serata è proseguita poi con il tanto atteso John Mayall, uno che non si è mai fermato nella sua carriera, uno che ha speso tutta la sua vita per la musica.
In questo passaggio in terra friulana Mayall, tra ovazioni e applausi, ha presentato il suo ultimo disco da studio dal titolo Nobody told me pubblicato lo scorso febbraio, disco ricco di collaborazioni (Joe Bonamassa e Steven Van Zandt solo per citarne due), suonando The moon is full e altre perle della sua ricca carriera come Dirty water, One life to live, So many roads e Chicago line estratto addirittura dal suo primo disco.
In totale dodici brani in scaletta per una durata di poco meno di due ore di spettacolo, alternandosi, come ben ci ha abituati, tra piano elettrico ed Hammond, chitarra ed armonica, mentre ad accompagnarlo abbiamo trovato una band di tre elementi tra i quali spicca senza dubbio Carolyn Wonderland, ottima chitarrista e cantante con buona voce a tratti molto graffiante.

Alla fine, per niente stanco, John Mayall si è concesso al pubblico per una tranquilla serie di autografi per tutti.
Indubbiamente una grande serata che difficilmente si ripeterà, facendo pentire amaramente chi purtroppo non c’era.

 

Cristiano Pellizzaro per RadioCityTrieste

Foto di Fabrice Gallina

TRIESTE – Teatro pieno e pubblico molto eterogeneo per il concerto di Ermal Meta al Rossetti di Trieste.
Apre lo spettacolo il giovane e promettente Pierfrancesco Cordio, cantautore siciliano, con quattro brani incluso “La nostra vita”, presentato al Festival Sanremo Giovani 2019 e scritto con l’aiuto dello stesso Ermal Meta. Cordio chiude tra gli applausi e dà spazio a Ermal che inizia al pianoforte per poi passare alle chitarre semi elettriche.
Il cantautore si rivela un ottimo interprete sfoderando una voce bella, potente e ricca di sfumature, completata da un meraviglioso e invidiabile falsetto che riesce a dare coloriture molto particolari ed efficaci in alcuni dei pezzi presentati.
Il repertorio selezionato spazia tra il presente e il passato offrendo i brani più celebri, qualche pezzo scritto per la sua band precedente “La fame di Camilla”, e alcune suggestive cover.

La scrittura musicale delle composizioni è semplice, ma estremamente valida, eseguita per l’occasione con gli arrangiamenti del GnuQuartet (Raffaele Rebaudengo alla viola, Francesca Rapetti al flauto traverso, Roberto Izzo al violino e Stefano Cabrera al violoncello e al pianoforte) che ha accompagnato Ermal per tutto il concerto arricchendo la melodia delle sue canzoni di sfumature classiche senza però snaturarne il senso originale. Testi molto intelligenti che parlano d’amore, ma anche di temi scottanti quali ad esempio la violenza domestica e il terrorismo.
Brevi aneddoti e scambio di battute con gli spettatori rendono l’interazione sempre viva e costante durante tutto lo spettacolo.
Scenografia essenziale per due ore di grande spettacolo e quattro bis concessi per la gioia dal partecipativo pubblico.
L’omaggio finale a Domenico Modugno con una cover di “Amara terra mia” è stato molto, molto apprezzato ed emozionante.
Un evento da ricordare nella nostra città, organizzato da Azalea Promotion in collaborazione con la Regione Friuli Venezia Giulia e Il Rossetti.

Per Radio City Trieste, Michele Marolla
Foto Manuel Demori

PORDENONE – Mi sono sempre chiesto quale sia l’elemento che provoca la reazione per cui una certa musica smuove qualcosa nell’ascoltatore. Nell’autunno di tre anni fa per una pura coincidenza, nemmeno ricordo cosa stessi cercando, su Youtube mi saltò fuori il canale della KEXP, una stazione radiofonica di Seattle che proponeva un’interminabile lista di interviste con esibizioni di innumerevoli artisti.
In quel momento mi si è aperto un mondo. Un giardino pieno di fiori, colori e profumi che in un batter d’occhio mi hanno fatto perdere il senso dell’orientamento talmente vasta era la scelta.
Trovai di tutto lì dentro, da nomi noti come Bonobo, Stromae, Thievery Corporation e il nostro Jovanotti, ad altri per nulla conosciuti come i Vök, una giovanissima band islandese di Reykjavik che si muoveva tra elettronica, atmosfere al limite del Trip-Hop e gustose sonorità Indie.
Si rivelò nitidamente sin da subito una ovvia matrice di provenienza della terra dei ghiacci, la stessa che ha dato i natali alla nota Bjork e ai suoi Sugarcubes, ai Sigur Ròs e ai fantastici ma meno noti Samaris.Chi l’avrebbe mai detto che da un’isola come l’Islanda potevano venir fuori tutti questi nomi? Probabilmente a giocare un ruolo determinante dev’essere la posizione geografica, identificata nella prolifica triangolazione i cui vertici sono Danimarca, Scandinavia e Islanda appunto.
Da quest’isola lontana i Vök arrivano inaspettatamente fin nella nostra zona e sinceramente non so quando potrà capitare un’altra occasione di rivederli da queste parti.
Attivi da ormai sei anni, con un leggero cambio nella line up rispetto alla partenza, due Ep e un disco dal titolo Figure pubblicato nella primavera del 2017, i Vök per la terza volta, e quasi in sordina, sono arrivati in Italia a presentare il raffinato Dream Pop di loro creazione e composto da elementi di spicco che si confermano essere inconfondibili connotati di riconoscimento.
Il set eseguito è limitato nella durata (non è possibile pretendere un’interminabile cavalcata), ma quanto andato in scena ha regalato una piacevole e divertente serata da gustarsi preferibilmente nei club.
Forse ancora un po’ acerbi per certi versi, e vista la giovane età non può essere diversamente, hanno dato comunque prova di talento e consapevolezza. Nessuna spavalderia o gesto eccessivo sulla scena che hanno dimostrato di saper affrontare.
Penso sia da ritenersi fortunati a vedere adesso i Vök. Le platee potrebbero diventare molto più grandi e affollate in un domani non tanto lontano.
Dire di averli visti ad un palmo dal naso potrebbe essere un bellissimo ricordo.

 

 

Cristiano Pellizzaro per RadioCityTrieste

Foto di Cristiano Pellizzaro

 

 

 

TRIESTE – Sin da quando la data di questo concerto era stata annunciata, si era capito che la sala sarebbe stata presa d’assalto dallo scatenato pubblico delle grandi occasioni, e proprio per questo motivo la platea è stata sgomberata dalle sedie per lasciare posto a chi avrebbe voluto ballare senza sosta.
Ray Gelato assieme ai suoi Giants è ritornato a Trieste dopo un’assenza durata un bel po’ di tempo ed è stato davvero un grande evento!
Proprio al Teatro Miela era passato, all’inizio della sua carriera, venticinque anni fa, quando cominciava a muovere i primi passi nell’universo musicale.
Quindi, assolutamente dovuto un concerto a casa nostra, per questo tour celebrativo del quarto di secolo di attività, occasione che giustamente il Miela ha colto al balzo, come sempre sa fare portando nella propria struttura nomi di rilievo per serate che contano.Ray Keith Irwin (questo il vero nome di Ray Gelato, classe 1961, britannico e non americano come si potrebbe pensare) ha regalato per una sera il gusto dell’atmosfera dei club d’oltre oceano, quelli di diversi decenni fa, visti nei film americani che ci hanno fatto sognare, quelli delle piccole orchestrine guidate dai grandi maestri dello Swing, del Jazz e dei Crooner.
Anche il dress code (d’obbligo in questo caso) viene rispettato, ed ecco quindi  eleganti completi indossati da tutti i presenti sul palco, in contrasto però nel colore, dove il blu spetta ai musicisti ed il marrone per il front man, in modo da farne risaltare la presenza e sottolinearne il suo ruolo.

Tanti i brani conosciuti e inseriti in scaletta come Carina, Just a Gigolò e Torero, ma anche A Pizza You, Bar Italia e The Celebrity Club, tutti suonati con affiatamento e maestria dai sei elementi della band, tra i quali ritroviamo il contrabbassista Manuel Alvarez, il batterista Marti Elias e Gunther Kurmayr al pianoforte, tutti già visti con il Ray Gelato Quartet per l’edizione 2016 del Muggia Jazz Festival.

L’indiscusso leader della scena cattura l’attenzione e diverte, si alterna tra sassofono e microfono muovendosi sul palco con il braccio piegato mentre le dita schioccano e tengono il tempo.
Fosse per lui, non scenderebbe mai dal palco.
Alla fine bagno di folla nel foyer per autografi e foto di rito.

Cristiano Pellizzaro per RadioCityTrieste

Foto di Fabrizio Caperchi (www.lanouvellevague.it)

TRIESTE – Una storia lunga quasi mezzo secolo, e per la quale ci sono ben venti dischi a tracciarne il percorso, è a dir poco invidiabile.
Voce e stile inconfondibili hanno reso le sue canzoni uniche e lasciato il segno nel cuore di diverse generazioni.
Edoardo Bennato, classe 1946, ha cambiato ben poco in tutto questo tempo. Giovanile e Rock ‘n’ Roll, in jeans e maglietta e con gli occhiali da sole, sembra aver fatto un patto con il diavolo.
Se gli chiedessimo quale possa essere il suo segreto siamo certi che risponderebbe facendoci vedere la sua chitarra e aggiungendo “…tutto merito della musica”.E lo spettacolo che in anteprima è andato in scena a Trieste ha il gusto di qualcosa di molto personale. Certamente è stato un privilegio assistere alla prima nazionale di questo suo tour invernale dal titolo Pinocchio & Co. tour 2018 (produzione artistica curata da New Step, in collaborazione con Dimensione Eventi e Ventidieci).
Non capita spesso di ascoltare centosessanta minuti filati di concerto senza annoiarsi un attimo. Tutto d’un fiato il set è volato via davanti ad un pubblico delle grandi occasioni che ha riempito a dovere il Teatro Rossetti che sceglie sempre gli artisti migliori da portare in città. Come si diceva pocanzi questa è stata l’ouverture, la prima di quattordici date che si terranno fino a dicembre inoltrato, quando a Cremona il nostro eroe terminerà quest’avventura.
Un azzardo chiamarlo eroe? Penso proprio di no. Molti i bambini presenti in sala e rapiti dalle sue storie, mentre quelli più grandi sono ritornati giovani con i cavalli di battaglia di Bennato che attraverso le strofe dei suoi racconti parlano molto della società, della vita, fanno riflettere, e anche se andiamo a pescarli nella discografia più datata, ancora oggi sono attuali.
Burattino senza fili è uno dei suoi dischi più conosciuti e fortunati, rivisitato nel 2017 a quarant’anni di distanza dalla prima pubblicazione e con l’aggiunta di alcuni brani narranti di personaggi che all’epoca non erano stati cantati.
Mastro Geppetto e Lucignolo sono le due nuove composizioni presentate e suonate durante la serata, assieme ai fratelli maggiori Il gatto e la volpe, Dotti, medici e sapienti, La fata, Mangiafuoco, In prigione, in prigione e Quando sarai grande.
Tutti sparsi qua e là durante lo spettacolo e realizzati in chiave Rock, acustica oppure sinfonica come il set in apertura di serata.
Sembra strano che uno che ha sempre parlato di Rock, di chitarre e suonato l’armonica riesca a proporre in un solo spettacolo tre generi così diversi tutti assieme, vero? Invece è andata proprio così.
A seconda dell’impatto che ad ogni brano si voleva dare, ecco l’ottimo Quartetto Flegreo in apertura di serata con gli archi a dare il via alle danze, per poi passare ad un set folk in solitaria (in stile Otto e Barnelli per intenderci) dove Bennato canta, suona la chitarra, tiene il tempo su di un tamburo e alterna l’armonica al kazoo, fino alla terza parte elettrica assieme ad un’affiatata banda di cinque musicisti.
Il titolo del tour forse lascia intendere che la scelta dei brani cadrà solo sulle tematiche della favola del burattino più famoso di sempre e al quale Bennato deve buona parte della sua notorietà, ma al contrario ci sarà spazio anche per altri brani della sua rispettabile discografia. Abbi Dubbi dava il titolo al disco del 1989 e dal quale ancora propone La luna, La chitarra e Vendo Bagnoli (Viva la mamma sarà la grande esclusa della serata), da Sono solo canzonette del 1980 (altro disco di successo), oltre al brano omonimo ci saranno Il Rock di Capitano Uncino e L’isola che non c’è.
E poi ancora Meno male che adesso non c’è Nerone, Rinnegato, Un giorno credi, In fila per tre, Le ragazze fanno grandi sogni (del 1995), e Pronti a salpare e La calunnia è un venticello, entrambi dalla sua produzione più recente del 2015.
Tra suggestivi video proiettati per accompagnare i brani e i racconti di Bennato, lo spettacolo giunge al termine e mi viene da pensare quanto tempo sia passato dalla sua ultima apparizione a Trieste.
Abbiamo atteso tanto ma questa sera ci siamo riscattati alla grande.

Cristiano Pellizzaro per RadioCityTrieste
Foto di Franco Pellizzaro

TRIESTE – La curiosità era già tanta dallo scorso dicembre quando il concerto era stato annunciato poi, quando è partito il tour, recensioni e commenti on line ne parlavano in modo davvero soddisfacente.
Lo ammetto, dopo i primi video che sono circolati in rete, mi sono lanciato a vedere cosa David Byrne ci avrebbe servito per questa sua nuova avventura.
Una bestemmia per molti questo modo di soddisfare la mia curiosità, così come il poter scoprire in anticipo i brani suonati nei concerti già eseguiti consultando le scalette on line. Ma questi sono pregi e difetti della rete.
Da allora, ogni giorno la voglia di partecipare al concerto è cresciuta, anche se sapevo cosa avrei trovato in quella umida serata di luglio, ma l’entusiasmo non è venuto meno.
David Byrne è un artista a 360°, oltre che musicista è anche scrittore ed espositore. Forse non ci si ricorda della collaborazione con Ryuiki Sakamoto per la realizzazione della colonna sonora de L’Ultimo Imperatore di Bertolucci, e molti non sanno che ha scritto diversi libri (cito Diari della bicicletta e il saggio Come funziona la musica), inoltre non tutti sono a conoscenza che nel 1998 presentò lui stesso a Trieste la mostra Your Action World, da lui stesso realizzata ed esposta al museo Revoltella.
Quell’installazione esponeva, tra le altre cose, dei manichini che trovavamo riportati anche sulla copertina del disco Feelings del 1997 e, in occasione di questo concerto in Piazza Unità d’Italia, un rivenditore locale di arredi artistici, ha voluto rendere omaggio all’artista esponendo in vetrina due stampe che riproducevano un paio di questi soggetti.
Per il tour di Feelings, Byrne fece tappa in Regione per la prima volta con un concerto in Friuli per la rassegna Folkest. Poi ritornò una seconda volta nel 2009 a Grado per il festival Ospiti d’autore, per quello che era il tour Songs of David Byrne e Brian Eno (l’anno prima i due avevano pubblicato Everything that happens will happen today, dopo la prima collaborazione di My life in the bush of ghosts del 1981). Questa volta invece il disco si chiama American Utopia ed è stato pubblicato nel marzo di quest’anno.
Dal disco, per questo tour, verranno estratti sette brani, mente per gli altri si andrà a pescare anche dalla discografia dei Talking Heads.
Spettacolo, e che spettacolo, sabato 21 luglio a Trieste.
L’ultima delle tre date che hanno portato la città alla ribalta internazionale con la rassegna Live in Trieste, organizzata da Zenit srl e Azalea Promotion, in collaborazione con il Comune di Trieste e la Regione Friuli Venezia-Giulia, che hanno saputo scegliere sapientemente tre assi da calare in meno di una settimana.
Dopo Iron Maiden e Steven Tyler ecco un ulteriore spettacolo musicale ma un pò insolito, che offre assieme teatro, musica, ritmica e coreografie, su di un palco allestito in modo del tutto diverso rispetto a quanto siamo abituati.
Un semi perimetro composto da un muro di fitte e fini catene separa la scena dal backstage. Le luci dei palazzi della piazza svelano alla vista le sagome degli artisti, che tra poco appariranno, passando proprio attraverso le catene come fossero una tenda.
I dodici angeli dell’arte, scalzi, che per novanta minuti rapiranno il pubblico, indossano tutti un elegante completo grigio.
Oltre a Byrne sul palco ci sono anche due coristi, un bassista, una chitarrista, un tastierista e sei percussionisti. Tutti, nessuno escluso, con strumenti e microfoni wireless per permettere loro di muoversi e disporsi sul palco in totale libertà e dare forma alle coreografie studiate per ogni brano, rendendo così questo show concettuale più che un concerto, una rappresentazione per stupire.
Byrne in prevalenza canta, suona poco durante il set, e in quelle rare occasioni imbraccia una chitarra bianca fornita da un braccio che spunta attraverso la tenda di catene, mentre i musicisti entrano ed escono di scena a seconda di cosa prevede il copione.
Da dietro alle catene, a seconda dell’illuminazione fornita dalle luci di scena, si riescono a scorgere nel backstage gli espositori delle innumerevoli percussioni usate dai sei fondamentali musicisti ritmici per i quali andrebbe fatto un discorso a parte. Precisi ed essenziali, coreografici e di supporto musicale l’uno dell’altro, che nel corso dello show cambiano svariate volte gli strumenti a seconda delle esigenze musicali.
Sembra di ascoltare un unico batterista quando si tratta di Pop Rock, ma diventano una batteria brasiliana con tanto di berimbau e cuìca, che perfettamente disegna incastri e produce stacchi di tradizione tropicale o di matrice Afro.
In questo fantastico ensemble troviamo Mauro Refosco, storico collaboratore (ultra ventennale) di Byrne (e non solo), percussionista completo e di eccellente formazione (perdonate le lusinghe, ammetto trattarsi di una debolezza dovuta a gusti percussivo-musicali).
I novanta minuti scorrono via veloci, c’è un solo bis composto da due brani e qualcuno spera in Psycho killer che purtroppo per questa volta rimane fuori dalla setlist.
Ma c’è ben poco da lamentarsi, e anche per la durata dello spettacolo, non sento alcuna osservazione al merito.
E ovvio, dopo uno spettacolo così, che cosa vuoi dire?

Cristiano Pellizzaro per RadioCityTrieste

Foto di Simone Di Luca

TRIESTE – Una “due giorni” che ha fatto di Trieste, e la sua splendida Piazza dell’Unità, il centro della musica rock perlomeno a livello europeo.
Zenit srl e Azalea Promotion, in collaborazione con il Comune di Trieste, hanno portato nella nostra città artisti che, alla faccia dell’età anagrafica, hanno incantato le migliaia di fans accorsi da ogni dove per gustare e vivere con il giusto spirito rock’n’roll dei concerti straordinari e, forse, difficilmente rivedibili.
Iron Maiden: quì le parole non basterebbero per descrivere la professionalità, esperienza, mestiere e divertimento che i “ragazzotti” inglesi riescono ancora a portare sul palco.
Probabilmente è corretta la definizione data da un fan al termine della loro performance: “La più grande live band del mondo, punto!”.
Tour, questo “Legacy of the beast”, che propone una scaletta con tutti i classici (a parte Wasted years) che i fan amano e “vivono”, specialmente nel pit, come non ci fosse un domani.
Ma vista la linfa vitale che ancora pervade tutti i membri della band, nessuno escluso, possiamo credere che un ipotetico farewell tour sia ancora lontano.
Trieste ultima data di questo tour estivo ma, nelle parole del frontman Bruce Dickinson e nel tweet della band, un ringraziamento e una “quasi” promessa: “Thank you, Trieste.. what an amazing place to have a show! Until next time!”
Steven Tyler: vero “animale” da palcoscenico, 70 anni e non sentirli, icona rock a livello planetario! Tutto questo, però, forse non basta a giustificare un ritardo sull’inizio della sua performance, che si è avvicinato all’ora. Da dire, a sua discolpa, che girano voci su dei problemi tecnici che hanno fatto slittare l’inizio dello show, anche con suo tangibile disappunto.
Al di là di questi problemi e di un paio di brani per “scaldare” la voce, lo spettacolo portato sul palco da Stefano Tallarico (ha scherzato pure lui sulla sua origine calabrese e sul suo nome) è stato coinvolgente, ricco di brani storici degli Aerosmith, ma anche di versioni “cover” di brani dei Beatles e Led Zeppelin (I’m down, Come together e Whole Lotta Love) o interpretati da miti del passato come Janis Joplin (Mercedes Benz e Piece of my heart).
Band non al suo (ancora altissimo) livello, specialmente sui brani ex-Aerosmith, ma con alcune individualità apprezzabili (batterista e armonicista in primis).
Due eventi che lasciano, quindi, un segnale molto positivo sia sulla potenzialità di Trieste come polo attrattivo per eventi legati al rock, con relative e non disprezzabili ricadute commerciali ed economiche sul territorio che, nuovamente, sul pregiudizio sbagliato che “il popolo del rock” sia formato da persone incivili, rissose, drogate e cattive. La riprova è stata data anche stavolta! Rock On!

Andrea “Mr. Rock” Sivini per Radio City Trieste

Foto Simone Di Luca

UDINE – Essere capaci di saper sfruttare al meglio le carte che ti sono state fornite e riuscir a creare qualcosa di veramente interessante.
Ne abbiamo avuto prova il 13 luglio al Castello di Udine con lo spettacolo di Cosmo (Marco Jacopo Bianchi all’anagrafe), dove è stato offerto uno show moderno rivolto al pubblico amante della scena Dance, per lo più composto da persone molto giovani.
Una pregevole serata organizzata da Vigna Pr e da Homepage Festival, andata in scena per l’omonima rassegna e alla quale hanno preso parte per l’apertura di questo evento anche la band locale gli Amari e i Santii.
Lo show di Cosmo, entrato a far parte nel circuito dei grossi eventi live, non ha nulla da invidiare ad altri suoi colleghi, e propone qualcosa che difficilmente si potrebbe dire possa essere prodotto nel nostro paese. Già più volte nella nostra Regione anni addietro assieme ai suoi Drink to me, Cosmo ritorna dopo il suo ultimo passaggio triestino del dicembre 2016, quando già faceva ballare e sballare.
Questa volta invece porta la sua carovana in Friuli dopo una nutrita serie di concerti e partecipazioni a notevoli eventi  come il concerto del Primo maggio che ne hanno confermato la qualità e amplificato la notorietà.
Nella musica e nei spettacoli di Cosmo è possibile ascoltare e trovare di tutto. L’udito gode di sonorità forse insolite per il pubblico di massa e che vengono ricercate tra quanto offerto già trent’anni fa, mischiato con quant’altro realizzato più di recente o che va di moda oggi.
L’allestimento del palco invece propone spettacoli conditi con potenti effetti luce degni di un ottimo rave, mentre on stage un set live realizzato assieme ai due percussionisti Mattia e Roberto riportano alla memoria quanto potevamo vedere negli show televisivi degli anni ’80 anche grazie al dress code scelto per andare in scena.
Qualcuno forse ha da ridire sul cantato in lingua italiana e sul suono della voce, ma secondo me la chiave di tutto sta proprio in questi due elementi, che s’incastrano perfettamente con il resto del prodotto e che vengono individuati soltanto in un secondo momento quanto il danno è già stato fatto e la sua musica ha già creato uno stato di strano ma piacevole compiacimento.
L’impianto diffonde musica sublime e limpida, la gente balla al ritmo della potente e arrogante cassa mentre sul palco si assiste all’offerta live delle produzioni sin qui realizzate e ad un set alla consolle che vede protagonista questa volta il solo Cosmo.
Chiusura ovviamente con L’ultima festa.
Serata davvero sorprendente. Uno dei migliori spettacoli in circolazione in questo momento.
E il nome dell’evento non poteva essere più azzeccato scegliendo appunto La festa in Castello.

Cristiano Pellizzaro per RadioCityTrieste

Foto di Fabrice Gallina