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GRADO (GO) – D’estate si balla, ci si diverte e ci si scatena. Poterlo fare sulla Diga Nazario Sauro di Grado con la musica dei Subsonica è stata veramente un’occasione unica, mai scelta è stata più azzeccata.
La band torinese non si è smentita nemmeno questa volta e per due ore, senza pause e senza i consueti e prevedibili bis di rito, ha trasformato il lastrico gradese in una splendida dance floor marittima sotto le stelle.
Un plauso quindi ai nostri paladini presentatisi in piena forma e con tanta voglia di suonare, offrendo al folto pubblico una set list tutt’altro che scontata.
Band senza eguali nel nostro paese, formatasi nel 1996 e invariata nella line up dal 1999, con ben dieci dischi all’attivo, i Subsonica sono arrivati sull’Isola d’oro per la decima edizione del festival Ospiti d’autore, pregiata rassegna della musica dal vivo curata e realizzata nel dettaglio da Azalea.
Con un lieve ritardo rispetto all’orario d’inizio, il concerto si apre con Nuvole rapide, primo singolo estratto dal disco Amorematico pubblicato ben vent’anni fa.
Buona parte del concerto ruoterà infatti attorno a questo disco, ma non sarà una delle solite serate celebrative.
I brani suonati ripercorrono tutta la loro carriera, anche se la scelta strizza l’occhio alla prima decade della loro storia, lasciando fuori più di qualche hit.
Ma, nonostante questo, il pubblico non protesta, anzi si lascia trasportare e gode delle ottime sonorità alle quali i Subsonica ci hanno abituati: drum and bass, levare e stuzzicanti elettroniche alternative.
Tastiere e batteria, suonate rispettivamente da Boosta e Ninja, la fanno da padrone, esprimendosi al meglio in Up Patriots to Arms (cover del 2011 di Franco Battiato), Benzina Ogoshi e Tutti i miei sbagli, invece, ci accompagnano al congedo della serata.
Si spera in qualche goccia di carburante ancora nel serbatoio del combo piemontese, ma Samuel si toglie gli auricolari e li consegna al fonico di palco, siamo veramente in chiusura.
D’estate si balla e ci si diverte sempre, con la buona musica.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

 

Foto di Maicol Novara

TRIESTE – Un palpabile entusiasmo aveva già invaso la piazza del Castello di San Giusto ancor prima dell’inizio del concerto, facendo scegliere a molti di non occupare sin da subito i posti assegnati e rimanere in piedi per potersi poi dare alle sfrenate danze per tutta la serata.
Qualche minuto di ritardo sull’orario previsto ed ecco che parte un’inconsueta e singolare ouverture che vede protagonisti alcuni dei musici passare tra il pubblico suonando i loro ottoni fino a raggiungere il palco, da dove a breve sarebbe iniziata la festa.
Il Maestro Goran Bregovic, ambasciatore della cultura balcanica veste un elegante completo bianco che lo fa spiccare in mezzo agli altri sette musicisti con abiti popolari e costumi tradizionali.
La Wedding and funeral band è un elemento imprescindibile della figura artistica del musicista e compositore bosniaco, di passaggio a Trieste quasi ad ogni suo tour.
Non ha bisogno di presentazioni Bregovic, anche i sassi sanno chi è e da dove è partita la sua storia.
La sua fama è legata alle colonne sonore dei film diretti da Emir Kusturica, ma ancor prima ha fatto breccia nei cuori della gioventù dell’allora Jugoslavia con il Rock dei Bijelo Dugme.
Tutta un’altra strada quindi, ma non è questo il primo o il solo caso, di precedenti analoghi se ne contano parecchi.
Un sold out annunciato, millecinquecento persone stipate nel Piazzale delle Milizie in un rovente sabato 23 luglio, per quello che è stato uno degli eventi principali dell’estate triestina, organizzato dalla Good Vibrations Entertainment per la rassegna Hot in The City, festival rientrante nella programmazione di Trieste Estate.
Chissà quanti fra i partecipanti a questa calda serata erano presenti allo Stadio Grezar nell’estate del 1998, quando Bregovic iniziava a cavalcare l’onda del successo fuori dai confini nazionali e passava nella nostra città per la prima volta.
Oppure nell’ottobre dell’anno successivo, quando lo stesso fece tappa al PalaTripcovich per uno spettacolo avvincente in cui musica e bellissime letture recitate dall’attore Omero Antonutti, si fusero assieme.
Certamente da allora il pubblico è cambiato, e molti dei festanti e scalmanati giovani presenti sul colle in questa serata al tempo non erano ancora nati.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste 

Foto di Francesco Chiot

TRIESTE – Una delle qualità del blues è che si può apprezzare sia nelle sue versioni tradizionali che nelle sue interpretazioni meno canoniche. E che in entrambi i casi può essere piacevole, interessante e appagante. La serata di lunedì proposta dal festival Hot in the City nel castello di San Giusto ne è una prova lampante.
Pronti, via. Le sorelle Lovell salgono sul palco, attaccano subito con il riff iniziale di She’s a Self Made Man e richiamano il pubblico, seduto e composto sulle loro sedie, ad alzarsi ed accorrere sotto il palco.
È chiaro fin da subito che ciò che si preparano ad offrire è qualcosa di diverso.
Rebecca e Megan Lovell sono cresciute nella terra del blues, della roots music, del bluegrass, sono fatte della stessa sostanza. Non possono interpretare il genere, lo trasudano.
La scaletta alterna pezzi più energici (
Trouble in Mind, Wanted Woman-AC/DC), a pezzi più groove (Bleach Blonde Bottle Blue, Holy Ghost Fire) e ad alcuni momenti più intimi (John the Revelator, Might as Well) senza un calo di tensione, un momento in cui i musicisti non sembrino un tutt’uno con la loro musica.
L’affiatamento della band è impressionante, a partire dalla sezione ritmica (Brent Layman al basso e uno strepitoso Kevin McGowan alla batteria), decisamente più presente che sui dischi, senza però essere mai invadente.
Rebecca è una frontman eccezionale, una sirena che ammalia e avvelena con la sua voce, ed una chitarrista che sa essere polverosa, ruvida e allo stesso tempo soave, proprio come la sua terra rossa, quel Georgia clay che evoca nel brano
Blue Ridge Mountains.
I meravigliosi, armonici contrasti si notano anche nella sorella Megan: molto meno estroversa ed appariscente, ma la sua slide guitar è padrona della scena, e la sua voce dialoga in perfetta sintonia con Rebecca.
L’energia è contagiosa, come testimoniano i mille sorrisi sul palco e tra il pubblico composto da giovani americani in vacanza, signori e signore ampiamente sopra gli -anta, e bambini con genitori che ci tengono a fare crescere bene i loro figli.
La forza della musica di Larkin Poe infatti sta nell’essere fresca e moderna, ma non per questo meno “vera” o distante dalla tradizione: può ammiccare al pop di Lily Allen (
Mad as a Hatter) o ispirarsi alle sonorità di Jack White (Bad Spell, il primo estratto dal prossimo album, Blood Harmony, in uscita a novembre), e allo stesso tempo omaggiare Son House con Preachin’ Blues, richiamare Blue Sky degli Allman Brother all’interno di Back Down South, e concludere la serata con una trascinante versione di Come in My Kitchen del padrino del blues Robert Johnson.
Nell’opening act la friulana Eliana Cargnelutti, supportata da una band di musicisti ineccepibili, ha proposto, invece, un blues che rielabora i classici standard, facendo qualche incursione nell’r&b e nel boogie.
I brani hanno un unico imperativo: trascinare. Ed il pubblico, pur accomodato sulle proprie sedie, non può fare a meno di battere il piede e seguire il ritmo.
Eliana, supportata da una solida sezione ritmica, e un tappeto di hammond su cui si innestano i fiati, propone i suoi brani (tra cui spiccano Who is the Monster? e Breathe Again del suo più recente Aur) con energia ed eleganza.
La sua voce e la sua chitarra, entrambe impeccabili, spiccano anche quando interpretano un classico moderno come Soulshine (the Allman Brothers Band).
Eliana e la sua band vengono salutati da convinti applausi che premiano l’ottima interpretazione del blues più tradizionale.

Grazie Good Vibrations Entertainment Srl & Trieste is Rock per averci offerto una speciale serata di blues al femminile.
Grazie a Eliana Cargnelutti per averci dimostrato che anche in Italia il blues si sa suonare bene.
E grazie Larkin Poe per averci dato una prova tangibile che il blues è vivo e vegeto, e per averci fatto vedere (e sentire!) che l’America è ancora in grado di regalarci emozioni meravigliose.

Erasmo Castellani
per Radio City Trieste e Rock On radioshow

foto Andrea Mr Rock Sivini

TRIESTE – La luna, un castello, il rock’n’roll, ed il gioco è fatto!
E Glenn Hughes,”The Voice of Rock”, l’ha notato e fatto notare più volte nel corso del concerto organizato da Good Vibrations Entertainment Srl in collaborazione con l’Associazione culturale Trieste is Rock e la co-organizzazione del Comune di Trieste, e che lui, Doug Aldrich e Brian Tichy hanno tenuto nella splendida cornice del Castello di San Giusto a Trieste, davanti ad un pubblico ritornato finalmente in presenza dopo il periodo, lunghissimo, della limitazioni per la pandemia.
Tre “visioni personali” della performance del terzetto (David Lowy, il padrone/chitarrista della band li ha abbandonati, momentaneamente, per “problemi familiari”), nella nottata triestina del loro EU Summer Tour 2022
1. il cronista: si parte, benissimo, con Arthur Falcone e gli Stargazer, che fanno subito decollare la serata con la loro musica ricca di ritmo e virtuosismi, bravi davvero. Ma alle 22 in punto arrivano sul palco i Dead Daisies che sciorinano, in un’ora e quaranta circa, un’esibizione tecnicamente ineccepibile.
La grande esperienza ed il “mestiere” soprattutto del bassista e cantante di Cannock, rende il tappeto musicale compatto e quadrato per tutta la durata del set, farcito dalle interpretazioni di qualche classico della band (Mexico e Long way to go), qualche cover (Midnight Moses, Fortunate Son, Mistreated e Burn), un paio di assoli e una buona parte di brani tratti dagli ultimi album, specie quello realizzato dopo l’avvento dell’ex Deep Purple all’interno della band.
2. il commentatore: l’atmosfera creata dal power-trio ha immediatamente contagiato (in senso “musicale”) il pubblico presente sulla piazza d’armi del Castello di San Giusto il quale, subito dopo le prime note di  “Long way to go” si è alzato in piedi e riversato sotto il palco, come sempre succede ai concerti rock che si rispettino.
La serata è volata via a suon di headbanging, air guitar e ondeggiamenti del corpo come non ci fosse un domani, anche se, credo, che almeno una parte del pubblico probabilmente non aveva mai sentito prima  neanche un brano della setlist. Ma anche questa è la magia del RnR!
3. il fan: conosciuti (ed amati) sin dal lontano 2013, data di uscita del loro eponimo album di debutto, soprattutto grazie ad alcuni brani come Washington, It’s gonna take time, Yeah Yeah Yeah e, soprattutto Lock’n load (anche grazie alla presenza nel pezzo di Slash), e visti in più occasioni a vari festival e concerti, avrei gradito che almeno qualcuna di queste perle fosse inclusa nel set triestino.
Non è stato cosi, purtroppo, ma nonostante ciò ho comunque apprezzato la maestria di Hughes, la tecnicità di Aldrich e la potenza, veramente devastante, del “martello” Tichy, forse rimpiangendo però un pochino la voce di John Corabi, probabilmente più adatta al “rock da strada” dei primi Dead Daisies.
Un bel ritorno ai concerti rock di qualità nella nostra città, quindi, ed un augurio di lunga vita alle “Margheritine morte”, forse un controsenso ma, decisamente, molto Rock’nRoll!

Rock On!

Andrea Mr Rock Sivini
per Radio City Trieste e Rock On radioshow

TRIESTE – Era solo questione di tempo. Il momento di ritrovarsi, per riprendere in mano quanto avevamo lasciato in sospeso un anno e mezzo prima, finalmente è arrivato.
Non potevamo stare lontani dalle nostre attività ancora per molto. Intorpiditi dalla lunga pausa, pronti a rispolverare quanto dovuto interrompere senza sapere quando, in quali condizioni e, soprattutto, se mai avremmo potuto rimetterci al lavoro.
Nonostante conservassimo vecchi appunti scritti su carta e ci fossero anche delle registrazioni a venirci in soccorso, le idee ai primi incontri erano un po’ confuse.
Di polvere da rimuovere dai nostri ricordi ne avevamo parecchia e soprattutto la complicità delle poche prove a nostra disposizione hanno fatto sì che alle prime sessioni qualche animo ha tardato ad accendersi.
Spaziosi locali che di giorno ospitano un atelier di giovani artisti cittadini, al piano terra di una bella residenza d’epoca posta sul noto colle triestino, di sera diventano una suggestiva e confortevole sala prove per sette musicisti e un attore, pronti a smussare gli spigoli di un massiccio blocco di pietra e dare vita ad una creatura che, una volta presa forma, continuerà da sola il suo cammino fino alla maturazione finale.
Immersi tra tele di pittori, bozzetti, calchi e statue di scultori, scaffali pieni di libri e cataloghi, trovano posto anche microfoni, chitarre, amplificatori, percussioni varie ed una fisarmonica. Stiamo sempre parlando di attrezzatura artistica che, di conseguenza, ben si pone in mezzo a tutto il resto.
E così, chi su una sedia, chi su un vecchio divano o su uno sgabello, pregiandosi della sempre presente visita di Sam, uno splendido e mansueto Golden Retriver, in una piovosa serata di fine agosto, gli Illirya si ricompongono per iniziare a lavorare nuovamente ad Amica Carissima, uno spettacolo tematico con testi e musiche di Miriam Baruzza.Ma chi sono questi Illirya, chi si nasconde dietro al nome di un popolo che un tempo viveva in queste terre?
Per comprendere al meglio la loro storia dobbiamo fare un passo a ritroso di una dozzina d’anni circa, ovvero quando Miriam Baruzza e Alessandro Castorina, compagni nella vita e nella musica, decidono di musicare i testi da lei scritti, raccogliendo attorno a loro un nutrito gruppo di ottimi musicisti locali con l’intento di fondere cultura, tradizione e musica popolare della zona, scegliendo un nome importante come quello dell’ Illirya.
Nel corso del tempo questo nome ha assunto un significato ben più ampio ed il concetto di questa idea oramai matura, ha dato vita anche ad un’omonima associazione culturale che intende promuovere e far conoscere talenti e forme d’arte locali mediante incontri, mostre, concerti ed eventi culturali di ogni tipo. (FB Illiryamusic)
Dalle prime esibizioni, sino alla realizzazione del disco di debutto Nuvole di Passaggio (2019), diversi artisti si sono avvicendati in questo ensemble in cui attualmente, oltre ai già citati fondatori Miriam Baruzza (voce e autrice dei testi) ed Alessandro Castorina (basso elettrico), troviamo Diego Vigini (chitarra), Mauro Berardi (batteria), Stefano Bembi (fisarmonica), Massimo Leonzini (percussioni) e Cristiano Pellizzaro (percussioni aggiuntive).

Appositamente coinvolti, invece, per questa rappresentazione, l’attore teatrale Angelo Mammetti, la cantante Aisha Marin e lo scultore Max Solinas.Musica, poesia, recitazione e scultura hanno quindi convissuto per una sera sullo stesso palco, presentando al pubblico il caleidoscopico obbiettivo dell’associazione Illirya, oltre ad offrire con eleganza e raffinatezza presso al Teatro di San Giovanni di Trieste la prima assoluta di Amica Carissima, un viaggio attraverso musica, parole e forme nell’universo femminile.Un percorso che si sviluppa partendo da una semplice lettera scritta da un uomo ad una donna, per poi arrivare a contatto con quella forza ancestrale che da sempre dimora nella vita stessa e che attraverso il tempo arriva fino a noi.Tutto questo sino a scoprire la femminilità vista come fonte creativa e motore dell’esistenza, espressa attraverso i miti e gli archetipi, ma che nel corso dei secoli è stata spesso repressa e non riconosciuta nella sua importanza vitale. Quindi tutte le diverse figure, i diversi volti, sposa, dea, guerriera, guaritrice, strega, madre e figlia, descritte attraverso il racconto poetico e le canzoni, fino ad arrivare ad un unico messaggio: “l’unione delle due forze più grandi dell’universo, il femminile ed il maschile, che insieme creano il tempo e lo spazio, sono destinate a danzare insieme per creare la Vita”.Archiviata la prova generale, e terminati gli innumerevoli preparativi, finalmente è arrivato il momento di andare in scena.In fondo alla sala il fonico Fiodor Cicogna e il tecnico luci Stefano Pincin stanno ultimando i settaggi ai loro mixer e registrando tutte le impostazioni.Sul palco, invece, la strumentazione degli Illirya è definitivamente disposta assieme alla postazione del narratore Mammetti.L’allestimento si completa con l’omaggio alla figura femminile, pocanzi descritta, mediante l’esposizione sulla scena di alcune sculture dell’artista veneto Max Solinas del Borgo di Cison di Valmarino.Quattro rappresentazioni della donna, secondo la sua prospettiva artistica, realizzate in legno e metallo, che lui stesso descrive così: “Non ho nomi particolari per le sculture, sono tutte Modelle. Modelle di vita, per stile e scelte mai così comode, per cui mai scontate. Il più delle volte contro corrente e contro alla moda e alla mondanità…proprio per questo libere e leggére. Sempre alla ricerca di qualcosa in più attraverso il togliere alla materia, alla materialità…alle chiacchiere senza contenuti. Modelle Silenziose”.
L’attesa è quasi finita, le porte si aprono ed il pubblico, già numeroso fuori dalla sala, inizia a prendere posto. Nel frattempo la tensione sale e l’impazienza di mettere in moto la giostra la fa da padrona.
Con alcuni minuti di ritardo finalmente le luci si spengono e Miriam Baruzza fa il suo ingresso in scena per i saluti di benvenuto ai partecipanti, per i ringraziamenti a tutti coloro che hanno reso possibile la realizzazione di Amica Carissima, e chiama sul palco, per una breve presentazione della serata, Il Geco di Radio City Trieste (emittente web partner dell’evento), e Max Solinas per una descrizione delle sue opere.
Ora si è pronti per iniziare. Silenzio e buio in sala creano l’atmosfera giusta. Aisha Marin apre lo spettacolo con un testo da lei scritto e recitato come saluto ad un amico recentemente scomparso.
Qualcosa però non va per il verso giusto e un inconveniente tecnico non permette il controllo dell’audio dal banco del mixer. Fiodor attraversa la sala di corsa fino a raggiungere le quinte in modo da avvisare i musicisti che a breve andranno in scena. Questa proprio non ci voleva.
Qualcuno sbuffa appoggiandosi sulla ringhiera nel retro palco, qualcun altro impreca volgendo lo sguardo verso l’alto. Non è possibile che tutte le fatiche e le energie spese si siano vanificate proprio adesso ad un passo dalla meta.
Fortunatamente però ci sono Fiodor e la sua professionalità che scongiurano il peggio in men che non si dica, senza che nessuno se ne accorga.
I musicisti prendono posto tra gli applausi del pubblico, l’ultimo ad entrare in scena, mentre le prime note già si diffondono in sala, è il narratore, l’attore Angelo Mammetti.

Kol Dodi, La dea, Maria Maddalena, La strega, Bora, Come rugiada, La lettera del soldato, Il tempo dell’uva e del miele, Tango e Signora della baia, sono i dieci brani previsti in scaletta per questa serata.
Chi scrive questa cronaca ha la fortuna di vivere la serata direttamente dal palcoscenico, suonando seduto in un angolo a ridosso delle quinte, a fianco della più imponente delle quattro sculture.
Posizione privilegiata la mia, dalla quale mi è possibile gustare quanto accade, tenere d’occhio la scena e godere in tutta tranquillità di questa magica serata scambiando, di tanto in tanto, qualche sguardo divertito con Alessandro Castorina.
Qualche metro più in là, davanti a noi, sprofondato sotto al palco, il pubblico è immerso nel buio e da qua sopra le luci, a malapena, mi lasciano intravedere le sagome di chi è seduto nelle prime file.
Con l’onirica ouverture Kol Dodi, le luci riscaldano la scena creando l’atmosfera giusta e fondendosi alla perfezione con la musica e l’allestimento presente sul palco.
La dea, mediante i suoi versi “attraversiamo insieme la notte/ad un nuovo mattino ti condurrò/vieni con me nel giardino della dea/porta con te gioia e lacrime”, accompagna l’ascoltatore verso il cuore dello spettacolo mentre Miriam omaggia uno ad uno i suoi musicisti con una danza rituale, nel modo in cui ogni cerimoniere che si rispetti saprebbe fare.
Perfettamente in linea con il set percussivo di Massimo Leonzini, alla mia sinistra, e a ridosso della batteria di Mauro Berardi, al mio fianco destro, posso osservare ogni minimo particolare.
Tra i drappi neri del sipario che dividono la scena con le quinte, ogni tanto vedo spuntare l’obbiettivo di una macchina fotografica. Con molta discrezione, e silenziosamente come un gatto, alle nostre spalle si aggira Fabiana Stranich, unico fotoreporter autorizzato dagli Illirya nonché autrice dei bellissimi scatti del concerto.
Di fronte a me, sotto i riflettori, i colori variano dal verde al rosso, dal giallo al blu durante tutto lo spettacolo in un crescendo di intensità e raggiungendo l’apice con Bora, arrogante stacco strumentale di chiara matrice Progressive anni 70.
Prima però il copione prevede l’esecuzione de La strega, brano il cui titolo lascia poco spazio alle interpretazioni, che in un crescendo incalzante, dopo un assolo di chitarra di Diego Vigini, vede la voce di Miriam Baruzza guidarlo verso la conclusione, per poi lasciare le redini alla fisarmonica di Stefano Bembi.
Il brano è in dirittura finale, c’è l’atmosfera giusta ed il pubblico è con il fiato sospeso.
Per la chiusura all’unisono, fisarmonica e batteria dovranno essere in linea e affinché ciò avvenga Stefano deve catturare l’attenzione di Mauro. Si gira, lo chiama a gran voce.
I due si guardano, c’è intesa, ed al resto degli Illirya non rimane che seguirli per chiudere, tutti assieme, in perfetto sincronismo.
La sala piomba nel buio e nel perfetto silenzio musicale, ed allora scatta, inevitabile, l’applauso del pubblico per un finale così perfetto.
Da questo momento Amica Carissima prenderà una direzione diversa, più umana, proseguendo il suo viaggio attraverso i sentimenti.Dall’amore materno de La lettera del soldato, missiva scritta da un figlio sul fronte di guerra, passando per l’amore tra uomo e donna con Tango, la cui esecuzione, ricca di pathos, prevede un cantato a due voci di Miriam e Mauro, che per l’occasione abbandona il seggiolino della sua batteria.
La chiusura spetta a Signora della baia, un’accattivante Bossa Nova, sulle cui note ci si prepara al congedo non prima però che Miriam Baruzza abbia generosamente presentato musicisti, collaboratori e ospiti.
Non ci sarà nessun bis, Amica carissima non lo prevede, o forse è più adeguato dire che un’encore sarebbe del tutto fuori luogo non essendo questo un semplice concerto, ma qualcosa di più.
Uno spettacolo articolato, concettuale, dove l’intreccio di diverse forme d’arte formano una figura sola, come spiegato all’inizio.
Musica finita e luci accese in sala quindi con applausi dalla platea e saluti per tutti dall’alto del palco, con gli artisti tutti presenti davanti ad un pubblico soddisfatto che ora scalpita per altre repliche.

di Cristiano Pellizzaro

foto di Cristiano Pellizzaro e Fabiana Stranich

Link utili

Mauro Berardi Un modo diverso di insegnare e imparare a suonare la batteria

Stefano Bembi Pagina FB attività artistica

Angelo Mammetti Pagina FB ; Sito somasinidisi.it ; Blog

Stefano Pincin (trasmissione Sarsicce & Guaranà ideata e condotta assieme a Marco Busan) FB e Spotify

Max Solinas Sito ufficiale

 

Video Illirya

Il Tempo dell’uva e del miele

Il bimbo e il pellegrino (Live al Teatro di San Giovanni di Trieste, 22 febbraio 2019)

 Figlia di (Live al Teatro di San Giovanni di Trieste, 22 febbraio 2019)

TRIESTE – C’era una volta a Torviscosa, sulla strada statale che conduce a Cervignano, il Bourbon Street, un locale che, all’epoca dei fatti, forse aveva già cambiato nome ed era diventato il Blu Pavone.
Sono trascorsi parecchi anni da allora, ma i ricordi di Franco sono ancora ben vivi e nitidi, tanto da permettergli di raccontare di un giovane cantautore, tale Vinicio Capossela.
Seduti al tavolo di un ristorante nei paraggi del teatro Rossetti, il mio amico, arrivato da Ronchi dei Legionari appositamente per il concerto, apre il cassetto dei ricordi, tira fuori questa storia dei primi anni ’90 ed inizia il suo racconto.
Bizzarro immaginare il cantautore non ancora famoso che, al pianoforte, suona per meno di un centinaio di spettatori seduti ai tavoli di una sala immersa nel fumo delle sigarette non ancora bandite, in un’atmosfera quasi onirica.
All’epoca le radio già mandavano in onda qualcosa di Capossela, ed è proprio così che Franco l’aveva ascoltato per la prima volta; ed aveva poi avuto la fortuna di assistere ad uno dei suoi primi concerti regionali, permettendosi anche il lusso di bere qualcosa assieme a lui a fine serata.Raccontata così potrebbe sembrare la trama di un film, con i due che s’incontrano tanti anni dopo, dandosi appuntamento ad un orario bislacco, inconsueto, All’una e trentacinque circa.
Ed è proprio così che è andata, perché questo è il titolo dell’opera prima di Capossela, celebrata a Trieste con questo concerto non per un sentimento di nostalgia ma piuttosto per omaggiare le proprie origini. Un appuntamento rispettato da tutto il pubblico presente a questo bellissimo evento andato in scena al Teatro Rossetti di Trieste ed organizzato da Vigna PR e And Production, in collaborazione con il teatro stesso.Risicati i riferimenti alle sue opere più recenti, la serata è ruotata principalmente attorno ai primi tre dischi, dando spazio al già citato debutto del 1990, benedetto da Francesco Guccini e per la cui realizzazione erano stati chiamati in causa i migliori musicisti della scena di allora (Bandini, Villotti e Pitzianti, solo per citarne alcuni), oltre al leggendario Antonio Marangolo al sax, e il fido Enrico Lazzarini al contrabbasso, entrambi presenti sul palco triestino assieme a Zeno De Rossi alla batteria e Giancarlo Bianchetti alle chitarre.
Due ore e mezza di spettacolo mozzafiato, filate via senza alcuna pausa, durante le quali Capossela non ha mancato di omaggiare la nostra città che tanto ama, ricordando alcune notti brave spese in locali notturni triestini, e intonando assieme al pubblico alcuni versi della popolare canzone dialettale “Ancora un litro de quel bon”.
Veramente una bella serata. Una rimpatriata tra amici che si sono dati appuntamento All’una e trentacinque circa.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Simone Di Luca

TRIESTE – Chi lo avrebbe mai detto che un grande artista, una star internazionale, si sarebbe esibita nella nostra città in chiusura dell’anno, in un’atmosfera del tutto particolare, per di più regalandoci forti emozioni?
Se pensiamo che in questi ultimi due anni l’ambiente dei concerti ha dovuto correre ai ripari, e soprattutto che gli artisti stranieri hanno dato forfait in più di qualche occasione, a maggior ragione l’esibizione di Tony Hadley assume un valore ancora più importante.
Nel bellissimo contesto del Teatro Rossetti di Trieste, davanti ad un pubblico da tutto esaurito, l’elegante vocalist, una delle voci più autorevoli del panorama mondiale del Pop, si è esibito per quello che è stato il penultimo appuntamento di questo suo nuovo tour italiano composto da quattro date.
Il famoso cantante d’oltremanica, già visto in Regione in altre sei precedenti occasioni (con gli Spandau Ballet a Lignano nel 1987 e nel 2015, Udine e Sesto al Reghena nel 2016 per un personale omaggio a Frank Sinatra, a Gorizia nel 2011 e l’ultima volta a Grado due anni or sono), si è presentato questa volta al cospetto del pubblico accompagnato solamente da quattro musicisti per un “intimo” set acustico.Tastiera, chitarre, percussioni e voce, hanno quindi cullato i presenti per cento minuti circa, durante i quali sono stati eseguiti, per la maggior parte, brani della storica band britannica da lui capitanata nei tempi d’oro della New Wave e del New Romantic, generi degli anni ’80 durante i quali gli Spandau sono stati i maggiori esponenti assieme ai rivali “Duran Duran” di Le Bon & Company.
Per chi non fosse stato presente, non tarderò a fare un resoconto della set list andata in scena durante questa fantastica serata organizzata dallo stesso Teatro, in collaborazione con Vigna Pr e Imarts, che anche questa volta hanno colto nel segno, stuzzicando il folto pubblico (per la maggior parte non più giovanissimo), accorso anche da fuori Regione.Si parte con White Christmas, alla quale si aggiungerà in seguito Silent night, tradizionali natalizi eseguiti assieme a Let it snow! Let it snow! Leti t snow! di Sinatra, Somebody to love in omaggio a Freddy Mercury, e Because of you, ovvero un’anticipazione della sua prossima pubblicazione prevista per l’anno prossimo. Come già detto, Hadley ha legato il suo nome alla storia degli Spandau Ballet, ma come accaduto ad altri suoi colleghi cantanti (il “frontman” è quasi sempre la figura agevolata nell’emergere dal gruppo rispetto agli altri componenti), non gli è affatto facile, possibile, o forse proprio non vuole, togliersi di dosso questo importante fardello.Vengono eseguiti quindi brani che tutti stavano aspettando come True, Gold, I’ll fly for you, Onyl when you leave, Lifeline, Through the barricades e Round and round, suonati in modo ineccepibile ma che, a parer mio, mancavano della presenza del sax che Steve Normann ci aveva ben abituati a farci sentire.

Un’ultima nota a commento di questa serata. Presenti in platea, in assoluta estasi adorativa, una nutrita schiera dei Back to Rio, interessante progetto musicale composto da ottimi musicisti triestini, che da alcuni anni propongono uno spettacolo con i maggiori successi dei Duran Duran e ovviamente degli Spandau Ballet. Per loro questa serata è stata veramente un bellissimo regalo di Natale.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Simone Di Luca

Grado (GO) – Sono passati poco più di due anni dall’ultima volta che “l’ Avvocato” ha suonato dal vivo nella nostra Regione. Anche allora, deliziato come sempre dalle sue performances, mi auguravo che non dovesse trascorrere troppo tempo prima di poterlo rivedere a casa nostra.
Fortunatamente ci ha pensato GradoJazz scegliendo per la serata conclusiva della sua XXXI edizione proprio lui, il mitico Paolo Conte accompagnato dalla sua fida orchestra di undici elementi.
Il concerto andato in scena sull’Isola del Sole, ed organizzato dalla sapiente famiglia dell’Associazione Culturale Euritmica, ci ha dato l’opportunità di ripercorrere tutto il percorso “contiano” grazie a questo spettacolo celebrativo dal titolo 50 anni di Azzurro, un chiaro omaggio ad uno dei brani che più gli ha regalato fama e notorietà.
E questo brano è stato solo il primo di una lunga serie di noti successi da lui firmati che, assieme a Tripoli ’69, Insieme a te non ci sto più, Onda su Onda, Genova per noi e Messico e Nuvole, sono stati eseguiti nella serata gradese e hanno chiuso la prima parte del concerto.
Rinomato autore di testi portati al successo da grandi voci italiane, oltre ad essere un jazzista ed anche un appassionato di disegno sin dalla tenera età, solamente nel 1974 si presenta al pubblico con il suo primo disco, omonimo, che sarà seguito da un numero considerevole di altre produzioni sino al più recente Amazing game del 2016.
Un vasto bacino di sedici pubblicazioni discografiche da cui attingere per la scaletta di questo concerto di ottanta minuti divisi in due set, durante i quali ci si addentra in un enigmatico mondo musicale condito dai suoi mirabolanti testi, e dove troviamo personaggi e luoghi, immaginari o reali, magari incontrati o visitati nel corso della sua vita.Indispensabili, per comprendere appieno questo artista, il libro Quanta strada nei miei sandali: in viaggio con Paolo Conte (2006) di Cesare Romana, ed il più recente documentario Via con me diretto da Giorgio Verdelli (2020), interessante pellicola in cui amici e colleghi descrivono il personaggio, ne esaltano la scrittura e raccontano aneddoti, mentre il protagonista, in prima persona, narra la sua storia.Ma veniamo al concerto adesso, iniziato come da programma con l’artista che si presenta in scena a musica già iniziata per prendere posto dietro al pianoforte da dove dirigerà la continua sfilata di successi.
Da Come Di (eseguita con l’immancabile kazoo, strumento sì abbinato da sempre al mondo del Jazz ma in particolar modo associato al repertorio di Conte), a Sotto le stelle del Jazz, da Alle prese con una verde Milonga alle nostalgiche melodie di Giochi d’azzardo, poi la bellissima Gli impermeabili, e Via con me, il brano più conosciuto in assoluto.Ma il meglio deve ancora venire e sarà servito da lì a poco con le note di Diavolo Rosso, brano il cui protagonista è il ciclista Giovanni Gerbi, concittadino di Conte.
Si tratta di una cavalcata potente e irruenta che mette in risalto l’orchestra e la precisa ritmica della batteria da parte di Daniele Di Gregorio che, con la linea di basso di Jino Touche, indicano la strada, mentre le tre chitarre (Daniele Dall’Omo, Nunzio Barbieri e Luca Enipeo), tengono il pubblico con il fiato sospeso fino alla conclusione dei tre soli di clarinetto, fisarmonica e violino, eseguiti rispettivamente da Luca Velotti, Massimo Pitzianti e Piergiorgio Rosso che “incendiano” gli strumenti mandando in visibilio il pubblico. Ovvio e classico finale con standing ovation.
Ma c’è spazio ancora per il brano di chiusura e quindi si parte con Le chic et le charme, al termine del quale Conte si congeda dal pubblico uscendo di scena suonando proprio il kazoo.
Ancora un’ultima apparizione sul palco, ma solamente per un saluto al pubblico ed il consueto gesto della mano che taglia la gola, segno per dire che lo spettacolo è davvero terminato.
Come detto all’inizio, il concerto di Paolo Conte ha chiuso il programma di GradoJazz, ma i grandi eventi a Grado sono tutt’altro che terminati e gli appuntamenti con nomi eccellenti proseguono fino ad agosto.
Sempre a cura di Euritmica, e sempre presso il Parco delle rose, la rassegna Onde Mediterranee propone quest’anno, per il suo quarto di secolo, Noa & Gil Dor il 27 luglio, Francesco De Gregori il primo agosto e, a chiusura della rassegna, Willie Peyote il 5.
Se vi siete persi qualcosa, avete ancora modo di rifarvi!

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Angelo Salvin

UDINE – Gli anni ’90 per il Rock italiano sono stati davvero incredibili. Un’interminabile lista di band che spaziava in ogni direzione, aveva fatto sognare orde di giovani e non solo. Poi però qualcosa è andato storto e l’onda musicale si è infranta sugli scogli.
Tra i pochi sopravvissuti di quell’epoca, che oggi si contano sulle dita di una mano, ci sono i Marlene Kuntz ritornati in Regione, al castello di Udine, per la rassegna Udine Vola 2020 (l’ultimo appuntamento di questa edizione, previsto con Marco Masini, è stato posticipato a mercoledì 9 settembre).
Due sole le date quest’anno per la band piemontese (la seconda è prevista a Pistoia il 19 settembre), per un inaspettato set elettroacustico tutto da scoprire, presentato all’impaziente pubblico accorso anche da fuori Regione per vedere gli MK che, esattamente un anno fa, avrebbero dovuto suonare sempre qui, nello stesso luogo, ma che per problematiche legate alla salute di uno dei componenti, hanno dovuto rivedere tutto il loro calendario, dovendo annullare qualche data, compresa proprio quella del capoluogo friulano.
Sul palco il nucleo originale della band formato da Cristiano Godano, Luca Bergia e Riccardo Tesio, al cui fianco troviamo l’ormai collaudato Lagash al basso e il polistrumentista Davide Arneodo, per una scaletta che ha riservato più di qualche sorpresa.
E se mi posso permettere, per questa anomala stagione delle esibizioni live, va bene così,  quindi grazie all’ottima organizzazione di Azalea che ha dimostrato ancora una volta di saper gestire ogni tipo di situazione, proponendo sempre spettacoli di elevata qualità.

Si parte con Ti giro intorno dal disco Il vile del 1996 per poi proseguire con Sapore di miele (da Uno del 2007), Notte (da Senza peso del 2003) e La tua giornata magnifica (Nella tua luce del 2013), per uno spettacolo che decisamente ha un sapore diverso rispetto a quanto siamo stati abituati dalla band cuneese.
Infatti la complicità che si è venuta a creare tra la situazione virologica, che ci obbliga a stare sempre seduti ad una certa distanza l’uno dall’altro, e la scelta della band di creare uno show come questo, ci coglie assolutamente impreparati.
Ai concerti degli MK si poga, si grida e ci si scalmana al suono dell’onda d’urto sonora proveniente dal palco.
Ho sempre sostenuto che i Marlene sono meglio dal vivo che ascoltati in disco, stasera invece assistiamo ad uno spettacolo per certi versi sornione che, come un gatto dall’indole bastarda, aspetta il momento giusto per svelare il suo carattere e mostrare i denti.
Mi aspetto una svolta da un momento all’altro, ed è solo questione di tempo.
Dopo Musa (quella dei bellissimi versi “perché tu sai come farmi uscire da me, dalla gabbia dorata della mia lucidità, e non voglio sapere quando come e perché questa meraviglia alla sua fine arriverà”), e Osja, amore mio, ecco che il felino si gira, ci guarda e inizia a soffiare.
Con Fantasmi la serata decisamente prende una piega diversa e prosegue con la bellissima Lieve (dal debutto Catartica del 1994),  Io e me, Infinità e Ineluttabile (questi ultimi due da Ho ucciso paranoia del 1999), fino a Nuotando nell’aria che ha chiuso il concerto davanti ad un pubblico forzatamente composto tutta la sera, ma in piedi sul finale ad applaudire e omaggiare in standing ovation una grande e storica band.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

foto di Gianpaolo Scognamiglio per gentile concessione di Azalea.it

© Simone Di Luca

PALMANOVA – Come si poteva prevedere alla fine della serata eravamo tutti in piedi a saltare e battere le mani sulle note di Una musica può fare ma, però, senza mai abbandonare il posto che ci era stato assegnato e che obbligatoriamente dovevamo mantenere.
Per tutto il concerto ci siamo trattenuti dall’esplodere di entusiasmo e divertimento a causa delle regole che purtroppo conosciamo fin troppo bene, ma confidiamo che prima o poi riusciremo a mandare a farsi friggere questo Covid19!
Ad ogni modo nessuno meglio di Max Gazzè poteva chiudere la XXIV edizione di Onde Mediterranee, rassegna che si congeda dal pubblico in modo elegante e raffinato con uno dei cantautori italiani più noti ed amati dei nostri giorni.
Dopo i saluti di inizio serata da parte di istituzioni e organizzazione, che hanno raccontato i disagi e la disperazione della scorsa primavera quando ancora gli spettacoli non erano nemmeno ipotizzabili , ecco aprirsi le danze con un’artista di supporto. Caterina Cropelli, in arte solamente Caterina, nota al pubblico televisivo per aver partecipato ad una delle recenti edizioni di X Factor, che ha il piacere di presentare al pubblico il suo omonimo disco di debutto, intrattenendo gli spettatori per una ventina di minuti circa eseguendo una manciata di brani tra cui anche Duemilacredici, brano da cui è stato estratto anche un videoclip.
Poi arriva il momento di Max Gazzè che, per questo tour, ha deciso di lasciare spazio in scaletta anche a brani che non erano mai stati eseguiti live prima d’ora come Gli anni senza un Dio (dal disco Contro un’onda del mare del 1996), oppure La cosa più importane, brano del 2010 eseguito in concerto solo in occasione del tour del disco Quindi?.
Ovviamente non sono mancati i brani famosi, quelli che conosciamo molto bene e che ci hanno fatto apprezzare la sua coraggiosa e sperimentale vena compositiva, con audaci sonorità retrò anni ’70 di tastiere, synth e moog, ed inaspettate incursioni di fiati e schitarrate in sottofondo.Elementi non convenzionali  per un genere musicale “di massa” e riproposti live in questa serata rispettivamente dal maestro Clemente Ferrari, Max Dedo e Davide Aru.
Un esempio su tutti l’esecuzione del brano La favola di Adamo ed Eva eseguita con un finale dilatato (senza annoiare o essere di troppo), che seguendo la strada indicata dall’assolo di un magnifico trombone sorretto dai ricami sonori di tastiere e chitarra, si è evoluto attraverso Dub, Jazz e Chill Out prima di concludersi.
Prima della chiusura c’è spazio anche per una brano proveniente da una delle sue collaborazioni: Vento d’estate (realizzato con Niccolò Fabi), ed eseguito assieme alla già citata Caterina richiamata sul palco per l’occasione.

© Simone Di Luca

Gran finale, come detto all’inizio, con Una musica può fare, quella in cui i versi recitano chiaramente “…salvati sull’orlo del precipizio, quello che la musica può fare, salvati sull’orlo del precipizio non ci si può lamentare…”. Penso di non essere affatto azzardato se asserisco che, per chiudere un concerto in questo periodo, non poteva esserci brano più azzeccato.
A tirare la somme, quella che si temeva potesse essere un’estate misera di concerti è stata comunque una stagione ragguardevole sotto questo punto di vista, e questo grazie all’Associazione Culturale Euritmica che per la rassegna Estate di stelle (che già da anni porta grandi nomi musicali in Piazza Grande a Palmanova), ha inserito in cartellone questo bel concerto nell’ambito di Onde Mediterranee, manifestazione che l’anno prossimo festeggerà il suo primo quarto di secolo di vita. Certamente la prossima sarà un’edizione col botto.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

foto di Simone Di Luca