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TRIESTE – L’ultima volta che ho visto i Laibach dal vivo risale a quasi quattordici anni fa. E’ stata una scelta consapevole, la mia, per una pausa così lunga, in quanto avendoli già visti ben otto volte in poco meno di dieci anni, avevo bisogno di smaltire le tossine emozionali provocatemi dai loro spettacoli.
Non per nulla, in una recensione del 2004, descrivevo le loro esibizioni come “…un indigesto pugno nello stomaco che solo una volta digerito permetteva di comprendere ad apprezzare quanto appena visto”.
Dopo tanti anni sono ancora di questo avviso e, nonostante un loro spettacolo non lo ritengo adatto a tutti, penso comunque vadano visti almeno una volta.
Proprio per questo motivo ora, a bocce ferme, vorrei sapere quanti tra i presenti domenica sera conoscevano il collettivo artistico sloveno, ed erano consapevoli di cosa avrebbero visto.
In oltre quarant’anni di storia i Laibach hanno sempre presentato spettacoli molto particolari dove nulla è mai stato lasciato al caso, ed il loro nome è stato il punto di convergenza per diversi tipi di arti che si fondevano assieme creando qualcosa che andava ben oltre a quello che poteva essere un semplice concerto.
Non nuovi a rivisitazioni od interpretazioni realizzate secondo il loro punto di vista, i Laibach hanno intrapreso tourneè in tutto il mondo, sono stati la prima band a suonare in Corea del Nord, e sono da tempo uno dei fiori all’occhiello dell’etichetta discografica britannica Mute Records.
Nonostante la propria longevità però, la band slovena che porta il vecchio nome tedesco della capitale, ha suonato solamente quattro volte a Trieste. La prima nel maggio del 1995 al Teatro Miela per l’ Occupied Europe NATO Tour dal quale è stato realizzato un live, due volte al Teatro Sloveno nel febbraio del 2011 e nell’aprile del 2016, fino all’imponente passaggio attuale al Teatro Rossetti, per una rappresentazione sinfonica (realizzata a modo loro ovviamente), del romanzo storico Alamut dello scrittore sloveno (triestino di nascita) Vladimir Bartol.
Sul palco, per la trasposizione in musica della storia ambientata nella Persia dell’XI secolo, l’intera RTV Slovenia Symphony Orchestra, i due gruppi vocali Human Voice Ensemble di Teheran, ed il Gallina Vocal Group, l’orchestra femminile AccordiOna composta da ben dodici fisarmoniche, ed ovviamente loro, i Laibach, in formazione di cinque elementi.
E’ stata un’autentica opportunità questa, della quale possiamo ritenerci fortunati.
L’attenta organizzazione ad opera di Vigna PR e AND Promotions, in collaborazione con il Teatro Rossetti, hanno regalato al pubblico triestino un’anteprima assoluta. Infatti solo quattro le date per presentare questo spettacolo: Lubiana e Trieste, e poi ancora Francoforte e Zagabria.
Articolato e complesso, e non penso di sbagliare se aggiungo anche costoso nella produzione, Alamut ha avuto una gestazione molto lunga ed è nato da una collaborazione artistica tra menti slovene ed iraniane.
Da questo incontro, un percorso sinfonico di nove atti ha preso vita per infatuare la psiche attraverso il turbamento del senso dell’udito con l’ascolto di Sperimentazione, Isolazionismo ed Industrial, mentre l’occhio osserva rapito le immancabili creazioni visive che trasportano lo spettatore in dimensioni e luoghi non definiti.
Il tutto realizzato ad arte… come Laibach comandano.

 

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Simone Di Luca

ZAGABRIA – Ho la testa pesante, la sento leggermente gonfia. Mi fischiano le orecchie. Eppure il volume non era esagerato ed i suoni erano perfetti.
Non c’è stato niente che potesse disturbare dal punto di vista dell’acustica, anzi tutto è stato perfetto.
Probabilmente sarà la stanchezza del viaggio a darmi questa sensazione. Rientrare a notte fonda, aver chiuso gli occhi solo a momenti, certamente non ha aiutato.
Il leggero vociare di chi stava seduto davanti mi arrivava ai sedili posteriori dove qualcuno, di tanto in tanto, sospirava o sbuffava nel sonno.
Erano anni che non facevo una trasferta così per un concerto: una piccola combriccola andata a divertirsi in terra straniera, unendo l’utile al dilettevole, fondendo una piccola gita in una capitale europea ad un live musicale.
Solo qualche ora fa, fuori dall’Arena, fiumi di persone stavano confluendo da diverse località per assistere al concerto. Potrà sembrare impossibile, quasi come un segnale di buon auspicio, prima di entrare, da un autobus della linea cittadina, vediamo scendere lo stesso personaggio che avevamo incrociato in centro a Zagabria un paio di ore prima, nei pressi di Piazza Jelacica. Dall’abbigliamento indossato avevamo capito subito che le nostre destinazioni per la serata sarebbero state le stesse.
All’ingresso rimango sorpreso dal sistema elettronico dei tornelli, non tanto per la convalida del biglietto, che oramai ho già sperimentato in altre situazioni, ma dal display impostato con l’immagine dell’evento della serata.
Una volta dentro la tappa obbligata è il consueto banchetto del merchandising ufficiale, con la solita offerta di articoli oramai a prezzi da capogiro, allo stesso livello di un biglietto d’ingresso alla serata. La buona sorte però, vuole che al bar ci sia qualcosa di molto più interessante.
In queste occasioni i rincari sono notevoli, nelle zone ristoro non si scherza ed alla fine una serata potrebbe avere lo stesso costo di un’ora con una escort, che poi si complimenta con te per la prestazione offerta.
La sorpresa sta nei bicchieri di plastica forniti con le bibite. Contenitori per i quali paghi la cauzione e che non sei tenuto a restituire. Nulla di strano se non fosse che i bicchieri sono serigrafati con i motivi del tour della band, identica sorpresa avuta a Monaco nel 2013, sempre per i Depeche Mode e mai più vista in altre circostanze.
Ed anche questa volta, a dieci anni di distanza, i modelli sono due. Inutile spiegare il motivo per cui la corsa al banco delle bibite è stata immediata, non appena abbiamo scoperto la sorpresa.
L’entrata nel salone dell’arena non ci regala nulla di nuovo, ma il colpo d’occhio e l’atmosfera hanno sempre un certo fascino.
Il brusio, il mare di persone disposte in ogni dove, quella presenza di aria viziata che si accompagna alle luci bianche dalla luminosità poco più che crepuscolare e artificiale, mi rimandano con la memoria a qualche film di cui ricordo ben poco, mentre l’impianto audio trasmette dell’aggressiva musica Techno, decisamente fuori luogo.
La struttura è piena in ogni dove. L’ultimo di noi che ha scelto di aggregarsi è riuscito, un paio di mesi fa, a trovare un biglietto per puro caso.
Noi altri siamo ai nostri posti quasi frontali al palco, sulla curva, visuale perfetta, smarcata da angolazioni fastidiose, e tra poco comincerà la festa tanto attesa.
Memento Mori è veramente un bel disco e non ha tardato ad entrare nei nostri cuori. Aldilà della sua attesa, è un disco che piace e sorprende per essere un’ulteriore conferma della band inglese.
Ma quello che tristemente ci affascina di più, penso sia la circostanza della scomparsa di Andy Fletcher, avvenuta nel maggio del 2022.
A partire dal titolo, Memento Mori e dalla copertina in bianco e nero ritraente due funebri omaggi floreali, creati per sembrare due bianche coppie di ali d’angelo, questo disco ha chiaramente il sapore di un omaggio, di un saluto, qualcosa di dovuto nei confronti di chi, per tanti anni, è stato nel bene e nel male un indispensabile compagno di viaggio.
Nulla è lasciato al caso in MM, piccola cripta in cui le voci sono trattate con delicatezza e le musiche ci ricordano il percorso sino a qui svolto dai nostri paladini.
Un viaggio emotivo in cui non mancano riferimenti e richiami ad altri lidi, un’avventura in cui si incontrano fredde sonorità robotiche della scuola tedesca, secondo il vangelo dei pioneristici Kraftwerk, fino a far riemergere dalla memoria le bellissime favole musicali Trip Hop raccontateci dei Massive Attack.
Ascoltare MM è come passeggiare in un bellissimo prato pieno di fiori colorati, tutti da ammirare, tutti da raccogliere, nessuno escluso.
Il momento di vedere nuovamente i Depeche Mode all’opera è arrivato, le luci in sala si sono spente. Il pubblico li acclama. A lato del palco, una porta si apre per alcune volte sui corridoi illuminati del backstage. Si vedono delle sagome entrare e prendere posto a lato del palco, pronti a salire quei pochi gradini che li separano dallo stage.
Impeccabili negli abiti di scena, eleganti, leggermente truccati in volto con un tocco di mascara sugli occhi, loro, Martin Gore e Dave Gahan, oramai soli in un duo, si accompagnano anche questa volta con l’indispensabile Peter Gordeno e l’insostituibile Christian Eigner.

Una volta saliti, alle loro spalle, un megaschermo con un’imponente M al centro a ricordare il titolo del disco.
Il saluto al pubblico con questo tour, avviene con il brano My cosmos is mine, traccia di apertura del disco, e non poteva essere altrimenti.
Subito dopo arriva Wagging tongue, secondo brano di Memento Mori.
Saranno veramente pochi i brani di questo lavoro a venir presentati live in questo tour.
In perfetto stile DM, lo spettacolo non tarda a prendere quota e ad avvolgere il pubblico. Martin si alterna come di consueto tra chitarre e tastiere, come sempre Dave farà la parte del trascinatore.
Una scaletta “quasi” perfetta, in cui troviamo anche Walking in my shoes, seguita da It’s no good.
Nel buio dell’arena, i fasci colorati dei fari illuminano il pubblico. Tra gli spettatori gli immancabili schermi degli smartphones sparsi qua e là, mappano i vari settori. Le note che si accompagnano ai video introducono il prossimo brano, Everything counts.
L’arrangiamento iniziale lascia pochi dubbi per la prosecuzione del brano estratto da Construction time again del 1983, che sarà poi seguito da Precious e da My favourite stranger (anche questo da Memento Mori).
Dopo la parentesi acustica di Martin da solo sul palco assieme alla sua chitarra per Strangelove, entrano in scena dei palloncini di colore nero.
Si canta tutti in coro Happy Birthday per Mr Gore che proprio questa sera compie gli anni.
Il concerto prosegue, la festa continua. Ghosts again irrompe dagli amplificatori con le sue inconfondibili note. Si tratta del bellissimo singolo di Memento Mori, uno dei brani chiave di questo disco. Una commovente ballata, accompagnata da un azzeccato video realizzato in bianco e nero, che viene proiettato sullo schermo.
Un filmato dall’impatto fortissimo, ambientato in un contesto metropolitano in cui, Martin e Dave, sono concentrati, uno contro l’altro, in una partita a scacchi, come ne “Il settimo sigillo” di Bergman.
A pain that i’m used to si sprigiona in tutta la sua splendida arroganza nella versione live, prima della bellissima World in my eyes, ovvero l’atteso saluto ad Andrew Fletcher, il cui volto appare sullo schermo.

Lo spettacolo ha ancora qualche carta da svelare e, prima dei consueti bis, regala la magica Enjoy the silence conclusa da Martin a suonarne ripetutamente il riff, in mezzo al pubblico, in cima alla pedana del palco.
Sta per arrivare la botta conclusiva prima del definitivo congedo dal pubblico, giusto il tempo per prendere un po’ di fiato che è già il momento del rush finale con Condemnation suonata in versione acustica.
Ma ora si dovrà ballare, Eigner inizia a scandire il tempo in quattro ed il pubblico sa già quale sarà il prossimo brano. Dopo alcune battute il batterista austriaco aggiunge colpi sulle pelli della batteria per permettere, all’inconfondibile intro di tastiere di Just can’t get enough di presentarsi al pubblico. Si canterà per tutto il brano.
Con Let me down again si assiste al consueto rito che si rinnova ad ogni concerto quando, sul finale del brano, Gahan si pone a bordo palco ad osservare il pubblico, alza le braccia al cielo e fa vibrare le mani.
La gente sa cosa dovrà fare, non aspetta altro e risponde alla chiamata, e dal palco viene dato il via facendo oscillare le braccia da un lato all’altro.
Lo spettacolo, il colpo d’occhio che si viene a creare tra gli spalti ed il parterre, ti da la sensazione di stare su di una zattera alla deriva in un mare in tempesta, e salgono le lacrime per una scena così emozionante.

Siamo un esercito. Stanchi, sudati, senza fiato e senza voce, ma un poca di forza ci rimane per l’ultimo giro di giostra.
Oramai ne manca solamente una alla lista, ed eccola, introdotta dal riff di chitarra Rock Blues: la chiusura spetta a Personal Jesus.
A luci accese gli occhi fanno male, abituati al buio del concerto. Storditi ed esausti, le forze per acclamare un’ultima volta, comunque non mancano.
Sul palco quattro eroi che rispondono ai nomi di Martin, Dave, Peter e Christian ricambiano con affetto e soddisfazione.
Lo showbiz detta regole severe, non è affatto gentile. Impone orari e calendari a lui più comodi. Non concede libera scelta, possibilità di alcuno sgarro o cambio di programma.
Deve essere massacrante sopportare tutto questo per mesi, per anni, per tutta una vita, ma questa volta però, alla fine di tutto, ho come l’impressione che a tenere testa alle sue volontà, ci sia qualcosa di più forte. Qualcosa di più profondo che riesce a sopportare le sue leggi ed almeno per una volta, andarci oltre.

Gli amici del Red Bridge Group per Angelo Fator, in sua memoria
Foto di Cristiano Pellizzaro e Piero Udovicic

 

TRIESTE – Nei mesi estivi c’è sempre voglia di qualcosa di fresco e gustoso da assaporare, e nulla è meglio di un buonissimo gelato da prendere all’aperto, di sera, in compagnia di tanti amici.
La “cremeria” del Teatro Miela ci ha deliziati questa volta con l’offerta speciale di un prelibato semifreddo ai gusti Swing e Jazz, guarnito con topping di Jive ed un buonissimo biscottino italiano dal sapore American Style anni ’50.
L’offerta era valida però solamente per la serata di domenica scorsa, ovvero per l’ultimo appuntamento del Miela Musica Live, serie di eventi estivi realizzati dal noto teatro situato sulle rive triestine ed inseriti nel programma estivo di Trieste Estate.
L’attesa ed il pubblico sono stati quelli delle grandi occasioni, e non poteva essere altrimenti visti i protagonisti della serata, ovvero Ray Gelato (nome d’arte di Ray Keith Irwin) ed i suoi Giants.
Una band composta da sei elementi che per una sera ci hanno fatto rivivere, tra le mura del Castello di San Giusto, le atmosfere dei club d’oltre oceano, quelle di quasi un secolo fa, quelle delle piccole orchestrine guidate dai grandi maestri dello Swing, quelle dei film americani che ci hanno fatto sognare.
Assente da Trieste dal febbraio del 2019, anche questa volta Ray Gelato ci ha fatto ballare sin dalle prime note, ed allo scandire del tempo all’inizio di ogni brano, con il classico “one, two and one, two, three”, il “crooner” ha fatto partire la sua orchestrina al ritmo dalla batteria suonata dal pazzesco Marti’ Elias. Risultato: pubblico estasiato che abbandona le sedie per potersi divertire e ballare liberamente!
Mi è impossibile non spendere ancora qualche parola per il drummer, groove coinvolgente, suono preciso ma mai troppo esuberante da sbilanciare gli equilibri dello spettacolo, grande musicista!
Nelle serate di Ray Gelato trovano spazio tutti i più grandi autori ed interpreti del genere da lui proposto e quindi si passa da Dean Martin ad un dovuto tributo a Tony Bennett (scomparso alcuni giorni fa), fino ai nostri Carosone, Buscaglione e l’immancabile brano “Just a Gigolò” che tutti conosciamo.
E anche questa serata è andata, ma con trepidazione attendiamo di conoscere i prossimi appuntamenti stagionali del Teatro Miela, visto che da sempre ci sorprende e delizia con artisti curiosi ed ottimi spettacoli. Chissà cosa bolle in pentola per i prossimi mesi…!

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Giuseppe Vergara

TRIESTE – Talvolta capitano delle occasioni da prendere al volo, opportunità da non farsi sfuggire, situazioni per le quali abbiamo la possibilità di assistere ad esibizioni di autentici fenomeni, che non è detto però possano ritornare dalle nostre parti .
Nello specifico, per la serata in questione, qualcuno è venuto appositamente da fuori città, macinando centinaia e centinaia di chilometri.
In un periodo in cui si punta prevalentemente a spettacoli di tribute e cover band che, senza nulla togliere, hanno forse saturato la piazza, abbiamo comunque ancora la fortuna di poter contare su realtà che proseguono con il loro percorso di ricerca ed offerta di artisti e spettacoli originali.
Lachy Doley è un giovane australiano, un organista moderno appartenente alla sfera del mondo del Rock, uno che ha già fatto parlare tanto di sé  e del suo modo di suonare, tanto da essersi aggiudicato il titolo di “Jimi  Hendrix dell’Hammond”.
Tra il pubblico molti i nomi noti delle scena musicale triestina e non, tutti pronti a godere delle sue incursioni sulle tastiere che, per un soffio, causa il temporale pomeridiano sulla città, stavano quasi per essere annullate.
Giove Pluvio però non ha fatto i conti con lo staff del Teatro Miela, organizzatore dell’evento che rientra nella rassegna Miela Music Live a sua volta inserita nel calendario estivo del Trieste Estate.
Con mezz’ora di ritardo rispetto al previsto, dopo gli ultimi accorgimenti messi a punto da parte dei tecnici, lo spettacolo ha comunque inizio .
Direttamente dagli antipodi del globo terrestre, ecco un power trio che scuote le mura del Castello di San Giusto con ben due ore di ottima musica… e che musica signori!
Sound compatto, groove da ipnosi, anima da vendere, il Lachy Doley Group, oltre al leader che dona il nome al progetto, vede sul palco basso e batteria d’alto livello.
Per lo più divenuto celebre grazie ai filmati che si trovano sul web, Doley cattura e sorprende per la verve, l’energia ed il modo di suonare e di interpretare i brani celebri della storia del Rock, che sceglie di eseguire per omaggiare,  a suo modo, i grandi della musica (Hendrix, Lennon, Winwood).
Ammetto di non averlo mai conosciuto prima che il Miela ufficializzasse questa data, ma ho letteralmente adorato l’interpretazione del genere da lui proposto ed il suono dell’organo, suonato realmente in maniera assurda …beh, mi ha veramente tramortito.
Credo che in parecchi, anzi, tutti noi, stasera siamo usciti dalle mura del Castello con un insolito entusiasmo; abbiamo colto la palla al balzo, non ci siamo lasciati sfuggire quest’opportunità, e abbiamo fatto bene!
Ah si…peccato per chi non c’era…

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Giuseppe Vergara

TRIESTE – Quanto ci siamo emozionati durante questa bellissima serata? A quanti di noi le lacrime hanno riempito gli occhi?
Ora alzino la mano quelli che le hanno trattenute. Adesso invece mani alzate per quelli che le hanno lasciate andare.
Nulla di cui vergognarsi, le emozioni fanno parte della nostra vita e la musica è emozione.
Rendere omaggio ad un grande artista non è mai facile, ci si ritrova sempre con la spada di Damocle pronta a colpire, soprattutto se si tratta di un vero artista, uno di quelli che hanno lasciato il segno, uno che ha saputo rappresentare pensiero e anima attraverso splendidi versi poetici, vestiti con trame musicali che calzano a pennello in ogni occasione.
Questa volta però non si correva alcun rischio, non poteva che essere un successo annunciato, una tranquilla partita giocata senza alcun timore; Perchè nessuno sa (e può) cantare Battiato come Alice. (Questa frase non è mia, è  stata riportata dagli organizzatori  Vigna Pr  sulla loro pagina Facebook al termine della serata).
Possiamo dire il contrario? Assolutamente no, perchè nel corso della sua lunga carriera, Alice  è stata interprete e ha duettato con il Maestro siciliano rendendo celebri i suoi brani anche fuori dai confini nazionali, e quindi chi meglio di lei per omaggiare Franco Battiato, scomparso nel maggio di due anni fa, lasciando un enorme vuoto dentro di noi?
La serata, programmata al Castello di San Giusto per la rassegna Hot in the city ed organizzata dai già citati Vigna Pr e Good Vibrations Entertainment, ha però strizzato l’occhio alla nostra città per due motivi.
Il primo, il più storico, riporta alla memoria un giovane Battiato (forse al suo primo passaggio a Trieste), proprio nel maniero posto sul nostro colle.
Era il 18 luglio del 1975 nell’ambito di una tre giorni musicale. Quindi non solo non ci poteva essere luogo più azzeccato, ma sono pronto a scommettere che certamente tra il pubblico di oggi, qualcuno era presente anche all’epoca.
Secondo, proprio da Trieste, questa volta al Teatro Rossetti  il 15 febbraio del 2016, Battiato e Alice debuttavano con un tour teatrale che, come da previsione, fece sold out già in prevendita.Non vado oltre con i ricordi, mi fermo qui e passo alla cronaca della serata, nella quale Alice (Carla Bissi all’anagrafe), ha seguìto una bellissima scaletta composta da brani scelti con attenzione e posizionati in un crescendo di intensità ed emozioni.
Una set list dalla quale sono stati lasciati fuori alcuni brani forse  fin troppo attesi dal pubblico, altri invece scelti per ripercorrere le sue interpretazioni, i loro duetti e la discografia di Battiato.
Quindi Eri con me e Veleni, Povera patria e L’animale, Summer on a solitary beach ed ovviamente I treni di Tozeur, fino a raggiungere l’apice in chiusura di set con il trittico composto da La stagione dell’amore, E ti vengo a Cercare (brano tratto da Fisiognomica del 1988 e rivisto nel 1996 dai C.S.I. nel disco Linea Gotica con un cameo vocale di Battiato sul finire del brano) e La cura.
Sul palco, assieme ad Alice ed alla sua voce, il pianoforte suonato dal maestro Carlo Guaitoli (per oltre due decadi al fianco di Battiato e presente a Trieste nel citato tour del 2016), e la giovane e talentuosa violoncellista friulana Chiara Trentin, per la quale penso sia opportuno spendere alcune parole in più.
Nata a Udine nei primi anni novanta, Chiara studia violoncello al conservatorio dell’omonima città e si laurea in Germania presso la prestigiosa Hockschule di Mannheim. Lo scorso ottobre ha presentato il suo progetto da solista “Violoncellula” alla Concertgebouw di Amsterdam. Il disco è stato commissionato dal festival della Cello Biennale di Amsterdam, nella sezione dell’Anner Bjilsma Award, vinto dal Maestro Giovanni Sollima. L’intero progetto è stato realizzato con un violoncello elettrico a sei corde, ammirato dal pubblico di Trieste durante i bis di fine serata.
Tre artisti che hanno saputo catturare il pubblico, rendere palpabile l’atmosfera, far emergere emozioni e far vibrare le nostre anime per tutti i novanta minuti di concerto.
C’è ancora tempo per un ritorno sul palco per un bis e per deliziare il pubblico con tre brani: Chanson egocentrique, Per Elisa e L’era del cinghiale bianco, brano con cui Alice e Battiato aprivano i loro concerti del 2016.
Chiudo qui, ogni altra parola sarebbe di troppo.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Simone Di Luca e dall’archivio di Cristiano Pellizzaro

TRIESTE – Finalmente Zucchero nuovamente in concerto a Trieste.
Sono passati quasi sedici anni dall’ultima volta che l’abbiamo sentito suonare qui “da noi”, nel capoluogo regionale, anche se un minimo di speranza che l’attesa potesse terminare da un momento all’altro era già balzata nei nostri cuori un anno fa, quando il suo tour aveva fatto tappa a Palmanova dopo ben dieci anni di assenza dalla nostra Regione.
L’ottimo colpo messo a segno dallo grande squadra di Azalea (fortunatamente ci son loro ad organizzare questi eventi), ha fatto sì che per Zucchero si potesse prenotare la splendida cornice di Piazza Unità d’Italia a Trieste per ben due serate. Inutile dire che, nonostante il doppio appuntamento, la corsa al biglietto iniziata sin dal primo momento, ha lasciato ben poco agli indecisi dell’ultimo minuto.
Così, con questo gradito doppio ritorno, sono ritornati anche i grandi eventi live nel salotto buono triestino grazie alla rassegna Live in Trieste che, una volta partita per altri luoghi la carovana Fornaciari, vedrà un altro grande nome della musica italiana esibirsi nello stesso luogo: Biagio Antonacci sabato 15 luglio.
Ma veniamo a noi, al primo dei due concerti triestini, quello al quale abbiamo avuto modo di prendere parte. Uno spettacolo molto generoso (più di due ore e mezza senza interruzioni), composto da una scaletta tutt’altro che scontata dove, a gran sorpresa, sono apparsi anche brani da molto tempo lasciati nel cassetto in sostituzione di altri divenuti nel corso delle varie tournee fin troppo abituali.
Cose, queste, che permettono ad uno spettacolo di rinnovarsi e mantenere una gradita genuinità. Non sono, però, nemmeno mancate le sorprese, almeno in questa prima serata, come l’apparizione sul palco della figlia Irene.
Mi piacerebbe poter andare per ordine, ma l’ispirazione per redigere la mia cronaca è un fiume in piena, ed è meglio che non perda la corrente.
Come da programma Zucchero si congeda dal pubblico lasciando il proprio copricapo sull’asta, sopra al microfono, accompagnando il gesto dal motto di Marvin Gaye “Ovunque io appoggi il mio cappello, quella è casa mia”, e usato dal nostro artista in segno di saluto e ringraziamento verso il pubblico e le varie località che lo accolgono.
Oramai Sugar ha suonato in tutto il mondo, l’avrà girato chissà quante volte a tal punto da essere uno di casa ovunque, uno con il quale ci si dà del tu. Tanto è vero che in diversi, tra il pubblico, lo chiamano a gran voce addirittura Adelmo, ovvero il suo nome di battesimo (“Adelmo è un nome da contadino e Zucchero da musicista. Sono sempre io, le due facce della stessa medaglia” da Tutto Compact n. 3 del 1989, testi a cura di Stefano Bianchi). Ecco quindi svelato l’arcano a lei, cara signora della quinta fila seduta affianco a me, che tanto ha tormentato il moroso affinché le svelasse il mistero di questo nome inconsueto! Adelmo appunto.
Sul palco, ad accompagnare il nostro Adelmo, una squadra di calcio composta da undici fuoriclasse pescati in diverse parti del mondo tra Italia, Regno Unito, Stati Uniti, Cuba, Camerun.
Inutile ricordare che in mezzo a queste All Stars spiccano il chitarrista Mario Schilirò ed il bassista, nonché direttore artistico, Polo Jones, entrambi con Sugar sin dagli inizi.
Hey Man e Dune Mosse, i brani più datati, L’urlo la perla inaspettata, The scientist la cover dei Coldplay (dal recente Discover del 2021), come omaggio alla band inglese in segno di amicizia.
Con Baila (Sexy thing) il pubblico esplode, abbandona le sedie e corre a ballare sotto al palco, mettendo a dura prova e sfidando il servizio di sicurezza che cercava di rimandare tutti ai propri posti.
Con Miserere il duetto virtuale e commovente con l’amico Luciano Pavarotti (Quando Zucchero lo convinse a registrare l’intervento nel brano Miserere, seduto sul divano della sua casa di Macerata, Pavarotti fu preso dal panico. Chi mi da gli attacchi? E l’orchestra? L’orchestra dov’è? E Zucchero prontamente: “L’orchestra è già registrata e la senti in cuffia, gli attacchi te li do io stringendoti l’avambraccio” da Troppe zeta nel cognome di Mario Luzzato Fegiz del 2017).
Poi ancora un altro duetto, questa volta con la figlia Irene per il brano Cose che già sai, seguito da Diamante, Diavolo in me e Per colpa di chi?
World Wild Tour è il nome di questa tournée partita più di un anno fa e che ancora sta girando tutto il globo. Ben felici di aver preso parte a questa bellissima festa, avevamo bisogno di “tanta dolcezza”!
Per tanto tempo abbiamo sperato in almeno in po’ di Zucchero e questo bellissimo e abbondante concerto ci ha fatto sicuramente salire la glicemia.
Ben tornato Zucchero!

di Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

foto di Manuel Demori (per la serata del 04 luglio)

e di Simone Di Luca (per la serata del 05 luglio)

 

PORDENONE – Anche se l’edizione di quest’anno ha strizzato l’occhio alle band dall’impronta decisamente più Rock rispetto al passato, il Pordenone Blues Festival si conferma ancora una volta come una delle rassegne musicali più importanti del Nord Est e non solo.
Un calendario denso di concerti ed appuntamenti satellite hanno fatto sì che, anche questa volta, svariate migliaia di persone hanno raggiunto la città di Pordenone da ogni dove per partecipare alle serata in programma.
E’ bastato osservare le targhe delle macchine parcheggiate sin dalle prime ore del pomeriggio, oppure ascoltare la gente parlare, per capirne la provenienza, se da altre regioni italiane, oppure da nazioni limitrofe.
Dopo l’apertura in pompa magna il giorno prima con l’esibizione affidata al leggendario nome dei Deep Purple, il calendario del Festival  prevedeva lo spettacolo degli inglesi The Cult.
Con l’organizzazione “storica” dell’Associazione Pordenone Giovani, questa manifestazione negli anni passati ha presentato, nei vari bill, nomi come John Mayall, Eric Sardinas, Anastacia e Steve Winwood, solo per citarne alcuni, oltre al compianto Jeff Beck nell’edizione di un anno fa.
Questa volta invece il Pordenone Blues Festival ci propone la storica band inglese nella quale rimangono solamente due dei membri fondatori,  Ian Astbury alla voce, e Billy Duffy alla chitarra.
Ad aprire la serata, sarebbe ingiusto non menzionarli, i canadesi The Damn Thruth per un piacevole e colorato salto ai tempi degli hippies.
La cronaca. Finalmente smette di piovere ed il popolo dei The Cult è pronto ad accogliere i propri dei e tre minuti dopo le ventidue eccoli salire sul palco e prendere posizione.
Passano rapidamente i primi tre brani iniziali ed ecco che arrivano già le prime hit, in sequenza Sweet Soul Sister seguita da The Witch, pezzi che hanno il potere di catturare il pubblico, mentre Lil’ Devil mantiene alta la carica elettrica della serata.
Astbury,  vestito di nero con abito lungo, larga bandana a coprir la fronte fino quasi agli occhi, e due lunghe trecce di capelli neri, sembra quasi un magnetico stregone pellerossa intento a celebrare riti propiziatori per la sua tribù.
Ed il gioco diventa quasi magico quando, sulle note di Rain, qualche goccia inizia a scendere sulla folla entusiasta.
Inutile dire sia stato questo uno dei picchi della serata, ma non da meno l’immancabile She Sells Sanctuary eseguita immediatamente dopo (entrambi i brani estratti dal secondo disco The Cult del 1985).
Ma c’è ancora spazio per raggiungere nuovamente alte vette con la chiusura, classica, di Love Removal Machine.
Dopo ottanta minuti di culto del Rock, il nostro rituale purtroppo si chiude, ma siamo talmente tanto elettrizzati che ci va bene così.
Anche questa volta si tratta semplicemente di musica ma ci piace, e come se ci piace. 

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Elisa Moro

TRIESTE – Un piccolo festival nato con l’intento di rendere omaggio alle meraviglie della nostra Regione.
La via di casa questa volta, nella notte di Ognissanti, ha fatto tappa nel capoluogo del Friuli Venezia Giulia per la sua terza edizione intitolando la rassegna Halloween Special.
I suoi ideatori, La Tempesta dischi e la band pordenonese dei Tre Allegri Ragazzi Morti, hanno portato al Teatro Miela una serata articolata in quattro diversi capitoli, in modo da poter soddisfare un pubblico composito.
Un’autentica festa iniziata puntuale alle ore 21.00 con la benedizione di Squarta.
Il maestro di cerimonia, componente dell’Hip Hop band dei Cor Veleno, ha riscaldato a dovere la dance floor con uno speciale dj set prima dell’apparizione sul palco dei Cacao Mental con il loro sorprendete ed ipnotico live set.
Un fluorescente face painting di richiamo shamanico sud americano sui volti del trio, atmosfere psichedeliche e sonorità elettroniche, assieme ovviamente alla radice musicale della Cumbia, hanno soddisfatto chi già li conosceva e sorpreso chi invece li ha ascoltati per la prima volta.
Un veloce cambio palco, ed ecco gli headliner, i “colpevoli” di questa festa, ovvero i Tre Allegri Ragazzi Morti, la Rock band alternativa che non necessità di presentazioni e che ha un forte legame con la nostra città.
Visti più volte dal vivo a Trieste, i TARM vantano un precedente analogo, sempre sullo stesso palco il 31 ottobre del 2016.
Con le maschere calate sul volto, come da tradizione, anche questa volta la band pordenonese non ha deluso le aspettative dei numerosi fan, tra i quali anche alcuni giovanissimi tenuti sulle spalle dai genitori.
Ancora il tempo per un brano e dopo saluti e ringraziamenti, raggiunti on stage dai Cacao Mental, Toffolo e compagni, eseguono assieme, In questa grande città.

Ma la festa non è finita, e sul palco viene allestita una consolle per il rush finale che farà ballare il pubblico fino a tarda notte con la splendida musica elettronica di Populous, producer, deejay, compositore e sound designer, affermato in tutto il mondo.
Una notte di Halloween tutt’altro che terrificante dove musica e danze hanno esorcizzato spettri e streghe per i quali non c’è stato posto e da dove, La via di casa, li ha tenuti lontani.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Beatrice Robles

Sarà che sto diventando pigro, oppure la causa possono essere i miei gusti in ambito musicale, ma sta di fatto che difficilmente, oramai, riesco a provare soddisfazione quando ascolto un nuovo disco. In certi casi può capitare addirittura che mi risulti difficile completarne l’ascolto.
Fortunatamente non è sempre così e talvolta capita ancora di scoprire qualche piccola gemma nascosta nella folta vegetazione della giungla musicale, e rimanerne affascinati, e Puls-e è stata quell’inaspettata sorpresa capace di riempire quel vuoto che ogni tanto viene a crearsi.
Ad essere sinceri, l’artefice dell’opera è partito avvantaggiato. Sapevo fosse un percussionista, lo avevo già sentito e visto in azione quattro anni fa a Trieste, in una ventosa e fredda serata di inizio luglio, per il battesimo di quell’edizione del Trieste Loves Jazz.
La scorsa estate invece nel Parco del Museo Sartorio, sempre per la medesima rassegna, a presentare questa sua opera prima in un solo live set, immerso in una miriade di strumenti.
La musica, e soprattutto le sonorità di Doc Mabal, al secolo Maurilio Balzanelli, mi hanno rispedito indietro con memoria e sensazioni, al finire di quegli anni ’90 quando avevo iniziato a suonare e stavo scoprendo generi musicali coinvolgenti e fuori dai soliti schemi.
Immediatamente mi sono ricollegato agli ascolti dei Tuu di One Thousand Years, degli O Yuchi Conjugate, di Peyote e ad alcuni fantastici tribali dei primi dischi degli Ozric Tentacles.
Un giudizio di parte il mio, non lo nego, ma rimane il fatto che fortunatamente c’è ancora chi sceglie di proseguire per la propria strada per poi sorprendere.
Nella vita Maurilio Balzanelli ha cullato, cresciuto e fatto maturare le sue due passioni centrando, in questo modo, i suoi obbiettivi, ovvero la medicina (è un medico di professione) e la musica, seguendo il percorso ritmico delle percussioni.
Trasferitosi a Trieste da adolescente, ha suonato la batteria nei Luc Orient, coltivando amicizie e contatti rimasti saldi anche dopo il suo trasferimento in Veneto, sul lago di Garda, dove tutt’ora risiede.
Nel corso della sua attività artistica ha suonato in quindici dischi ed in svariati concerti, anche nell’ambito di rinomate rassegne.
Ed ora, finalmente, per lui è arrivato il momento di presentare Puls-e, la sua creatura, sua opera prima, davanti alla quale è impossibile rimanere indifferenti ed impassibili.
Per quarantuno minuti Doc Mabal, ci presenta un quadro completo del suo percorso e lo fa con meticolosa e certosina precisione.
In Puls-e nulla è lasciato al caso, e tutti gli strumenti sono suonati, da lui stesso, dal vivo, senza mandare in loop alcun take.
Dopo una breve intro dal titolo Octopus, il disco si rivela in tutta la sua bellezza con la seconda traccia Bolle, brano nel quale dei flauti andini ci fanno fluttuare, in una sorta di anticamera propiziatoria, prima di intraprendere il nostro viaggio.
Da questo momento il percorso si snoda attraverso ritmi Afro, scanditi da brani come Azalai, fino ad approdare nelle terre dei ritmi caraibici e del Samba con il brano Farra.
Un’avventura sonora durante la quale si delineano immaginarie conformità di paesaggi esotici, i cui confini, lontani nel tempo, vengono tracciati grazie alla musica creata con innumerevoli strumenti a percussione, campane, piatti e crotalini, e le melodie percussive di Log drum e Tank drum.
Un viaggio mitico e dal sapore atavico, eseguito in silenzio e con il massimo rispetto, seguendo il percorso indicato da Shangò, nostra divina guida in queste terre.
Undici sono le tappe di questo nostro pellegrinaggio, fino all’apoteosi finale che viene raggiunta con Eruption
Un crescendo la cui esplosione finale si manifesta per mano dello stesso Orisha che suona l’ultimo profondo e ridondante colpo di tamburo a conclusione del viaggio, ponendo un sigillo al varco d’accesso di questo mondo, un sigillo che verrà tolto, dalla stessa divinità, all’inizio del prossimo ascolto.

di Cristiano Pellizzaro
foto di Renzo Bertasi e Rosario Varsaica

 

Sabato 22 ottobre, presso gli studi di Radio City Trieste, Maurilio Balzanelli presenterà Puls-e.

A partire dalle ore 14.00, sarà ospite de Il Geco nella sua trasmissione Fronte del Palco.

Repliche giovedì 27 alle ore 10.00, e sabato 29 alle ore 14.00.

Contatti Maurilio Balzanelli
Mail: mbalzanelli@libero.it
Profilo Fb: https://www.facebook.com/doc.mabal

Video Maurilio Balzanelli in concerto a Trieste il 27 luglio 2022, Parco Villa Sartorio per il Trieste Loves Jazz
https://www.facebook.com/doc.mabal/videos/413894317258875

TRIESTE – Siamo stati fortunati ad aver assistito a questo concerto! Non capita infatti ogni giorno di potersi gustare una leggenda nel salotto di casa propria.
Gli Ozric Tentacles sono stati una band simbolo dell’underground musicale, un riferimento per molti amanti della musica e per molti musicisti.
Formatisi nel lontano 1982, hanno vissuto il loro periodo di massimo splendore negli anni ’90, decade in cui le pubblicazioni erano annuali con tour incluso.
Io li ho conosciuti nel 1997, visti dal vivo per ben undici volte, dodici con questa questa esibizione cittadina, grazie alla quale sono ritornati a Trieste per la seconda volta, dopo l’evento sold out del teatro Miela nel novembre del 2010.
Nuovamente il merito va all’Associazione Musica Libera, organizzatrice del Trieste Summer Rock Festival, giunto quest’anno alla diciannovesima edizione.
Innumerevoli cambi di line up nell’organico e indirizzato il timone verso le sonorità del nuovo millennio, Ed Wynne rimane l’unico membro della prima ora, ancora a guidare gli Erpfans assieme al figlio Silas.
Anche il nome è cambiato, diventando oggi Ozric Tentacles Electronic, lasciando poco spazio alle interpretazioni di quello che è il nuovo percorso della leggendaria band.
Molti i fan storici presenti al Castello di San Giusto, tanti (e molto più giovani) i seguaci che si sono uniti in tempi più recenti e che hanno dimostrato di apprezzare maggiormente le ultime produzioni.
I brani eseguiti durante la serata hanno fornito una mappatura esaustiva del mondo degli OTE, a partire da Eternal wheel (Erpland 1990) in apertura di serata.
Si è proseguito poi con Kick Muck e The Doms of G’bal (Pungent Effulgent del 1989), Sploosh! (Strangeitude del 1991) e Dance of the Loomi (Arborescence 1994), passando per Jelly Lips (The floor’s too far away del 2006), ed infine Blooperdome (Space for the earth del 2020) per arrivare ai giorni nostri.
Serata imperdibile ed emozionante, la seconda della rassegna che quest’anno ha ospitato anche Delirium International Progressive Group, Soft Machine ed Il Padrone della voce (tributo a Franco Battiato).
L’anno prossimo il Trieste Summer Rock Festival festeggia i vent’anni di attività. Chissà cosa bolle in pentola!

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Nino Gaudenzi (NinoZx21)