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1-04-2025 0:08 In collaborazione con TSportintheCity – articolo di Francesco Freni
PISTOIA BASKET – PALLACANESTRO TRIESTE: 69-89
Pistoia Basket: Benetti 6, Ceron, Cooke 8, Forrest 28, Saccaggi 10, Della Rosa (k) 5, Santi n.e., Boglio n.e., Stoch n.e., Allen 6. Allenatore: G. Okorn. Assistenti: T. Della Rosa, G. Valerio.
Pallacanestro Trieste: Obljubech 1, Ross n.e., Deangeli 4, Uthoff 8, Ruzzier 3, Campogrande, Candussi 10, Brown 10, Brooks 6, McDermott 12, Johnson 12, Valentine 23. Allenatore: J. Christian. Assistenti: F. Taccetti, F. Nanni, N. Schlitzer.
Progressivi: 17-28 / 27-47 // 44-71 / 69-89
Parziali: 17-28 / 10-19 // 17-24 / 25-18
Arbitri: Valzani, Perciavalle, Dionisi.
PISTOIA – Trieste non cade nell’unico trabocchetto in grado di farle perdere una partita che probabilmente non avrebbe perso nemmeno giocandola altre cinquanta volte: deconcentrarsi, specchiarsi su sé stessa cercando esclusivamente lo spettacolo fine a sé stesso, smettere di difendere considerando vinta in partenza una sfida impari contro avversari in grado di opporre solo tanto orgoglio ed un sostegno continuo e commovente da parte della loro gente.
Ed invece, coach Christian tiene alta l’attenzione ruotando con il bilancino tutti i suoi uomini migliori fino alla fine, dimostrando rispetto per gli avversari ed utilizzando la partita in Toscana come un “allenamento rinforzato”, buono per provare quintetti sperimentali e nuove soluzioni per la costruzione dei tiri.
Già le prime battute dimostrano come la sfida si sarebbe dimostrata un confronto impari: pochi giri di lancetta regalati a Pistoia per sfogare la propria voglia, qualche punto concesso in contropiede, ritmi poco più che blandi per qualche minuto, e poi, improvviso, l’affondo definitivo, guidato da un Denzel Valentine a tratti irridente per superiorità tecnica e fisica, creatività e completezza rispetto ad avversari sempre più alle corde azione dopo azione.
Il “Barba” si diverte come al solito con le sue logotriple, alternate a penetrazioni fino al ferro nel cuore di una difesa toscana a tratti non pervenuta.
Una volta piazzato il colpo del KO a metà secondo quarto, la partita di fatto finisce, nonostante i moti d’orgoglio di un Della Rosa iper nervoso per la frustrazione, qualche buona soluzione di Saccaggi e la regia di un Forrest sempre più uomo solo al comando, specie per l’assenza di Kemp e l’esordio di uno spaesato Kadeem Allen.
Per il resto, gli uomini di Christian, che possono ruotare in modo credibile almeno dieci uomini senza abbassare il rendimento in modo tangibile, amministrano senza sforzo apparente il vantaggio, battezzando talvolta Forrest nel secondo tempo ma blindando il pitturato in modo ermetico impedendo di fatto ogni singola conclusione da sotto ai padroni di casa .
La sfida a rimbalzo, come del resto spesso successo durante la stagione, racconta di una superiorità netta (44 a 32), con statistica distribuita in modo uniforme fra i giocatori alternatisi sul parquet a testimonianza che il predominio in questa specialità vada ben oltre al supposto vantaggio fisico dei lunghi ma sia piuttosto una precisa attitudine di squadra, di posizionamento, di meccanismi a lungo affinati in allenamento.
Il risultato si traduce in una marea di possessi in più per Trieste, che li capitalizza con gli interessi.
Una volta che tutti, ma proprio tutti comprendono come la partita non avrebbe avuto alcuna possibilità di risolversi in modo diverso da una larga vittoria triestina, Trieste amministra sapientemente i ritmi, si limita ad impedire le transizioni avversarie ed accelera esclusivamente per spegnere le rarissime fiammate pistoiesi. Raggiunge un vantaggio superiore ai 30 punti già nel terzo quarto, e da lì inizia un lungo garbage time da dedicare soprattutto a riportare a Trieste, oltre ai due punti, anche caviglie e muscolature integre, dal momento che ogni qualvolta Trieste decide di accelerare arriva al ferro con una facilità quasi irridente, o libera il giocatore giusto al momento giusto per il tiro da fuori quasi sempre in ritmo, piedi a terra e chilometri di vantaggio (del resto le percentuali parlano da sole: 68% da due e 42% da tre).
Qualche intervento più dettato da frustrazione o divario tecnico che da reale cattiveria da parte dei giovani difensori di casa fa trattenere il fiato a panchina e tifosi triestini, specie quando a volare verso il supporto del canestro è Markel Brown (che ci mette un po’ a rialzarsi facendo perdere qualche colpo al cuore di molti) o a voltarsi la caviglia cadendo è Jeff Brooks, che però dopo qualche passo zoppicante rimane tranquillamente sul parquet.
Inutile parlare della prestazione dei singoli, che a rotazione si alternano nel prendersi responsabilità in attacco: coach Christian può addirittura concedersi il lusso di una partita di recupero fisico a Michele Ruzzier, che da un mese trascina la carretta in regia per oltre trenta minuti di media, tenendolo in campo per poco più di venti minuti, alternando nel ruolo Valentine, ma anche Brooks, Brown ed addirittura un McDermott che mostra ulteriore crescita sui due lati del campo.
Unico momento di curiosità nel finale è il mancato cambio di Luca Campogrande, dapprima candidato a finire la partita sul parquet assieme ad Obljubech, ma poi fatto frettolosamente risedere in panchina.
Forse un momento di nervosismo reciproco con il coach, ma è inutile indagare oltre: sono equilibri di campo, discorsi privati di spogliatoio ed è giusto che rimangano tali.
La quindicesima vittoria dei biancorossi ha l’effetto di rendere matematica la salvezza a sei giornate dalla fine, mantenendo d’altro canto aperta ogni possibilità verso l’alto ma anche verso il basso.
Sebbene risultati e classifica dicano esattamente questo, il fatto di limitarsi a conservare la categoria è naturalmente tornato ad essere un compito che Trieste può relegare nei più remoti meandri della sua memoria, anche recente.
Piuttosto, la sconfitta di Trapani a Sassari appiattisce in modo sensibile la classifica nelle prime posizioni, con i biancorossi a soli quattro punti dal primo posto e due dal terzo.
Certo, questo campionato incredibilmente equilibrato impone anche estrema attenzione a ciò che accade intorno o immediatamente sotto: Venezia, dopo quello di Reggio Emilia, vince anche il secondo scontro diretto superando Tortona ed entrando per la prima volta in stagione fra le prime otto estromettendone proprio i piemontesi.
Nelle prossime settimane i lagunari dovranno ancora affrontare in sequenza Brescia, Trieste e Trapani: dovessero mantenere o migliorare l’attuale posizione, diventerebbero un cliente davvero scomodissimo da affrontare per chiunque nella post season.
Contro Napoli, domenica prossima, Trieste potrebbe tornare a contare sull’intero roster reintegrando anche Colbey Ross: come l’anno scorso, i tasselli tornano a posto proprio nel periodo più importante della stagione.
Come potrebbe andare a finire, basandosi sui precedenti, fa parte dei sogni più spinti del popolo della Trieste baskettara.
(diritti riservati TSportintheCity)
Crediti: foto Panda Images
Ph. Antonio Barzelogna
23-03-2025 22:11 In collaborazione con TSportintheCity – articolo di Francesco Freni
PALLACANESTRO TRIESTE-VIRTUS BOLOGNA 85-78 (17-22; 37-41; 57-58)
PALLACANESTRO TRIESTE: Obljubech, Ross, Deangeli, Uthoff 11, Ruzzier 11, Campogrande, Candussi 2, Brown 18, Brooks 13, McDermott 9, Johnson 4, Valentine 17.All. Christian.
VIRTUS BOLOGNA: Cordinier, Holiday, Belinelli, Pajola 9, Clyburn 20, Visconti, Shengelia 25, Hackett 3, Morgan 13 , Polonara 4, Zizic 4, Akele.
All. Ivanovic.
ARBITRI: Giovannetti, Quarta, Valleriani.
TRIESTE – Ci si aspettava una reazione d’orgoglio dopo la tonnara siciliana, ed una reazione che assomiglia più a una ribellione ad un possibile momento di down atletico e mentale conseguente all’evidente impossibilità di continuare a far fronte solamente con l’energia e la forza di volontà alle continue e penalizzanti assenze è puntualmente arrivata, in campo e su spalti affollati da 6000 indemoniati ben decisi a gettare ogni difficoltà alle spalle, fondendosi con la loro squadra nella consueta comunione laica.
Non che il cliente in questo anticipo di ventitreesima giornata fosse fra i più comodi per ricominciare a correre: anche la Virtus, infatti, arrivava a Trieste ferita dopo l’inaspettata sconfitta sul campo dell’ultima in classifica di domenica scorsa e la ben più prevedibile, ennesima, imbarcata in Eurolega contro Tel Aviv, le sfuriate in spogliatoio di un sempre più frustrato Dusko Ivanovic e le inevitabili, inedite polemiche (che ora somigliano da vicino ad un’aperta contestazione) di un ambiente troppo abituato a ben altri rendimenti.
E dunque anche Bologna aveva moltissimo da farsi perdonare, con molti giocatori decisi a gettare sul campo, in un palcoscenico peraltro prestigioso per ambiente, seguito, risonanza ed entusiasmo, tutti gli attributi e la determinazione nel voler tornare ad essere l’altra metà di uno status quo dominante in Italia che dura ormai da troppo tempo ma che mai come quest’anno rischia seriamente di abdicare.Coach Christian può nuovamente contare, per cominciare, sulla dose di imprevedibile ma lucida follia del suo barbuto 45, ed almeno un lembo della sua coperta di Linus torna a permettergli di dormire sonni tranquilli.
Per il resto della coperta, quel Colbey Ross a cui ama affidarsi quando la partita si fa dura e che è assente ormai da quasi due mesi (sebbene la consolidata affidabilità di Michele Ruzzier potrebbe far vacillare le sue certezze), sarà necessario attendere ancora un po’, anche se vederlo svolgere il riscaldamento con i compagni ed utilizzare la mano destra almeno per i layup è di per sé stesso sufficiente a spargere una discreta dose di ottimismo.
Denzel Valentine ci mette un po’ a carburare, a tornare a respirare l’aria della competizione, i contatti, il gioco fisico, la pressione.
Poi, quando nel secondo tempo si accende definitivamente, torna ad essere quella scheggia solo apparentemente avulsa dai meccanismi della squadra che è diventato proprio dopo la partita di andata a Bologna: Valentine sfrutta, al contrario, i meccanismi offensivi dei compagni per mettersi in proprio, prendersi responsabilità immense, in ultima analisi costituire quel pericolo costante che sposta la difesa avversaria indipendentemente dalle percentuali al tiro, creando spazi ed opportunità per l’attacco biancorosso.
E proprio nel momento in cui si accende lui, cambia l’inerzia di una partita difficile, che si era messa in salita con una pendenza sempre maggiore sotto i colpi, soprattutto, di un maestro come Toko Shengelia, giocatore di altra categoria, meritevole probabilmente di un palcoscenico ben più ambizioso nelle zone alte dell’Eurolega.
Ha ragione Michael Arcieri quando afferma che solo un grande campione (un giocatore “impressionante” lo definisce il GM) è in grado da subito di cancellare la ruggine di un mese di stop e di risultare da subito determinante come fatto dal rapper di Lansing contro Bologna.
La Virtus, però, è davvero un osso duro soprattutto dal punto di vista difensivo: da metà campo in giù mette costantemente le mani addosso, aggredisce sistematicamente il portatore di palla fin sotto il canestro avversario, approfitta di un metro arbitrale piuttosto permissivo ed impedisce così a Trieste di avvicinarsi al ferro se non con sporadici pick and roll o grazie agli uno contro uno di un Markel Brown che quando salta il suo uomo arriva in un modo o nell’altro a tirare da sotto: finché le percentuali da oltre l’arco biancorosse, nel primo tempo, rimangono ben al di sotto del 30% in mancanza di un numero sufficiente di tentativi da due, la conseguente fuga in avanti della Virtus è inevitabile, specie se dall’altro lato del campo Trieste difende altrettanto bene sul perimetro impedendo agli ospiti di tenere percentuali da fuori sopra la sufficienza, ma ha enormi difficoltà a contenere Shengelia (che per tre quarti di partita è letteralmente una sentenza ogni singola volta che riceve il pallone a meno di cinque metri dal canestro) e Clyburn, alla sua prima apparizione in campionato dopo la lunghissima assenza per infortunio.
Ivanovic sceglie di tenere Grazulis in tribuna e Belinelli in tuta, ed alla lunga si trova le armi spuntate in attacco: Zizic soffre enormemente la fisicità di Johnson e commette tre falli in un amen concludendo di fatto la sua partita, Holiday litiga con impressionante costanza con il tiro, e così l’illusoria -quanto monodimensionale- fiammata bolognese si spegne velocemente come si era accesa già sul finire del primo tempo.
Punto dopo punto, difesa dopo difesa, rimbalzo dopo rimbalzo, la banda biancorossa ritrova la sua unità, ricomincia a giocare di squadra con la conduzione giudiziosa del suo metronomo triestino, demolisce piano piano le (poche) certezze delle V nere ed ingaggia un secondo tempo dal pathos infinito, sorretta dall’energia della sua gente.
La bagarre è il territorio preferito di giocatori che si cibano della positività dell’ambiente amplificando le loro possibilità fisiche ben oltre il plausibile: è, in altre parole, il territorio di gente come Jeff Brooks, che a un certo punto, sul finire del terzo quarto e fino al termine della partita, decide che l’one man show di Toko Shengelia, bello quanto si vuole, non sarebbe risultato anche vincente.
L’ex Milano e Venezia entra in una sorta di trance agonistica difensiva, bracca il georgiano rendendogli impossibile ciò che fino ad allora aveva fatto sembrare elementare, scivolando con lui nelle sue scorribande, mettendolo fuori equilibrio, cancellando la visibilità del ferro, innervosendolo ed alla fine demolendo le sue certezze.
Se poi un giocatore di 36 anni che in molti consideravano al crepuscolo della sua carriera, al 38esimo minuto di una partita così intensa, provoca la palla persa degli avversari e due secondi dopo si fa trovare solo sotto il canestro bolognese per inchiodare in contropiede la schiacciata della vittoria, allora significa che quel crepuscolo somiglia più ad una bella serata di inizio estate quando il sole rimane ben alto sull’orizzonte fino a tardi.
Ma contro Bologna, è ovvio, non la vinci con i singoli: pur con rotazioni ancora limitate per necessità e per scelta (Candussi gioca 7 minuti, Deangeli un’azione, gli altri sette scesi in campo vanno dai 20 di McDermott ai 35 di Uthoff) è fondamentale l’unità del gruppo, una unità tecnica così come morale, condotta certo dai leader naturali e dalle gerarchie ormai consolidate ma con mattoni fondamentali portati da ogni singola pedina in momenti diversi della partita, senza che nessuno rifiuti un tiro importante o eviti di prendersi responsabilità quando il pallone pesa mezza tonnellata.
Alla fine sono 5 gli uomini in doppia cifra, nessuno oltre i 20 punti, fra cui spiccano la doppia doppia da 11+11 di uno Jarrod Uthoff la cui utilità devastante si nota soprattutto a fine partita quando si vanno a leggere i tabellini, gli 11 punti con 9 assist di un Michele Ruzzier capace (a dimostrazione di quanto ognuno sia importante al momento giusto) di infilare due bombe consecutive che permettono a Trieste di riprendere in mano il pallino delle operazioni tornando nuovamente a condurre nel punteggio nel quarto decisivo, il 3 su 4 da oltre l’arco di un McDermott che, se possibile, gioca in difesa meglio che in attacco ed il solito manuale di tecnica ed esplosività di un Markel Brown sempre più leader.
Una prestazione di squadra che si traduce anche nell’ennesima vittoria nella lotta a rimbalzo, e contro Bologna non è affatto un dato scontato: 41-38 il computo totale, con 10 rimbalzi catturati in attacco che non sono certo frutto di vantaggio fisico (in quanto a centimetri e chili nel pitturato Trieste ne rende parecchi alla Virtus), ma piuttosto di posizionamento, di furbizia, di opportunismo ed, alla fine, di voglia.
Così come il 15-0 con il quale Trieste finisce la partita non è certo casuale o frutto di un black out autonomo della Virtus, bensì di una feroce applicazione difensiva e di una freschezza atletica che Bologna, probabilmente sfiancata dal doppio impegno stagionale e dai fantasmi che affollano le menti dei suoi giocatori, non è capace di pareggiare nonostante il tardivo rifiuto ad arrendersi di Pajola e Morgan.
E’, quindi, doppia vittoria stagionale contro la Virtus, novità assoluta nella storia della Pallacanestro Trieste.
Virtus che, curiosamente, ha perso nelle ultime due occasioni in cui è scesa in campo in via Flavia: la volta precedente, nella primavera del 2023, la vittoria triestina illuse tutti che, tutto sommato, la salvezza non sarebbe stata irraggiungibile, il resto è storia.
Intanto, con sette partite ancora da giocare i biancorossi hanno raggiunto, a quota 14, il maggior numero di vittorie dal ritorno in Serie A nel 2018, dopo le 16 del primo anno ed al pari di quelle conquistate nel terzo a fine campionato (in entrambi i casi le vittorie furono sufficiente per conquistare i playoff, segno del grande equilibrio e dell’accresciuta difficoltà del campionato di quest’anno: a quota 28, ma anche a 32, le probabilità di esclusione dalla post season, infatti, sono oggi praticamente al 100%).
Trieste sfrutta un fattore campo che -dopo le difficoltà di fine anno- torna ad essere decisivo, regalandole tre vittorie nelle ultime quattro partite.
A 28 punti, solo quattro sotto le posizioni che vanno dal secondo al quarto posto, ora la squadra di Christian può mettersi comoda ad osservare gli scontri diretti nei quali necessariamente qualcuna delle sue avversarie lascerà punti sul campo. Da qui alla fine della stagione regolare i biancorossi sono attesi da due scontri diretti, uno con una squadra che la precede (Trento in casa), l’altro a Venezia in una partita che potrebbe rivelarsi decisiva per la conquista di un posto nella post season.
Per il resto, saranno match delicati da affrontare con la dovuta attenzione contro formazioni che lottano per la loro sopravvivenza, a partire dalla trasferta in Toscana della prossima settimana, per continuare con il prossimo match casalingo contro l’ondivaga quanto imprevedibile ultima in classifica partenopea.
Per la volata finale coach Christian tornerà presumibilmente ad assaporare il lusso di avere a disposizione l’intero roster con 6 americani (sebbene l’agognato imbarazzo della scelta probabilmente non arriverà mai per il declino fisico di Justin Reyes che purtroppo, a questo punto, pare una sentenza sulla sua stagione): un booster decisivo -quanto indispensabile- per il decollo verso il secondo obiettivo stagionale.
(diritti riservati TSportintheCity)
Crediti: foto Panda Images
Ph. Antonio Barzelogna
23-03-2025 15:10
17-03-2025 7:38 In collaborazione con TSportintheCity – articolo di Francesco Freni
TRAPANI SHARK – PALLACANESTRO TRIESTE: 131-88
Trieste: Obljubech, Reyes n.e, Deangeli (k) 3, Uthoff 19, Ruzzier 13, Campogrande, Candussi 5, Brown 20, Brooks 4, McDermott 13, Johnson 11, Valentine n.e.
Allenatore: Jamion Christian. Assistenti: Francesco Taccetti, Francesco Nanni, Nick Schlitzer.
Trapani: Notae 21, Horton 10, Robinson 14, Rossato 13, Alibegovic 10, Galloway 7, Petrucelli 12, Yeboah 13, Mollura (k) n.e., Gentile, Brown 21, Eboua 10.
Allenatore: Jasmin Repesa. Assistenti: Andrea Diana, Alex Latini, Isaac Jenkins.
Progressivi: 41-25 / 70-42 // 101-69 / 131-88
Parziali: 41-25 / 29-17 // 31-27 / 30-19
Arbitri: Rossi, Borgioni, Capotorto.
TRAPANI – La Pallacanestro Trieste trova finalmente il modo per entrare negli annali della Serie A, ma purtroppo lo fa per il motivo sbagliato: funge, infatti, da sparring partner, alla stregua dei Washington Generals per gli Harlem Globetrotters, ad una prestazione balistica trapanese statisticamente memorabile, ed alla quale, suo malgrado, verrà per sempre associata.
Una prestazione granata che ritocca vari record stagionali, e qualcuno ogni tempo nella massima serie: 9 giocatori in doppia cifra, 167 di valutazione, 70 punti segnati in 20 minuti e 131 in 40 (quarto punteggio all time in Serie A), 41 punti segnati solo nel primo quarto, 19 triple con il 73% da tre, 43 assist (record all time in Serie A). E potremmo continuare a lungo. Ad esempio, cominciando dai 78 punti su 131 realizzati dai giocatori che non partivano in quintetto, segno di un roster che definire completo è riduttivo: Repesa si ritrova almeno 10 giocatori da rotazione pura, e la realtà dei fatti è che il suo omologo sull’altra panchina ne può ruotare di fatto 6.
Non deve ingannare, infatti, il tabellino finale, arrotondato dal garbage time dell’ultimo quarto, a partita ormai finita da almeno venti minuti, con spazio concesso a Deangeli, Campogrande, Candussi e Obljubech: Trieste, scegliendo di schierare Ruzzier, Uthoff, Johnson, McDermott, Brown e Brooks per gran parte della partita, viene letteralmente stritolata dalla fisicità debordante, prima ancora che dal talento puro, di avversari che contano su cambi vorticosi, alternando quintetti lunghi a small ball di una velocità devastante, capace di arrivare al ferro in transizione in costante superiorità numerica.
Trieste fallisce clamorosamente nel suo intento di difendere alla morte a metà campo, subendo al contrario il gioco velocissimo degli avversari, ma per cercare inutilmente di arginarlo si sfianca al punto da risultare sempre, costantemente, invariabilmente in ritardo nelle rotazioni difensive anche quando riesce a schierarsi, subendo sì la precisione al tiro di Trapani, ma agevolandola in modo evidente consentendo una caterva di tiri in ritmo, piedi a terra con chilometri di libertà.
Il fatto che poi Notae e Gabe Brown riescano nell’intento di centrare il bersaglio anche tirando con il palmo dell’avversario spalmato sul naso, è semplicemente il “plus” che trasforma una vittoria importante in una nottata magica e memorabile.
E dire che, se analizzata “stand alone”, la prestazione offensiva di Trieste non è neanche fra le peggiori della stagione: sono infatti 88 i punti segnati con percentuali ottime da due e discrete da tre, con il solito dominio a rimbalzo (29-20 con ben 15 rimbalzi in attacco), tirando addirittura con l’86% i ben 30 tiri liberi concessi (contro i 13 concessi a Trapani).A condannarla, però, sono le 25 palle perse, a suo modo anche questo un record stagionale, di cui solo 11 recuperate fattivamente da Trapani: significa che a causare i turnovers per ben 14 volte è la distrazione, l’errore banale che fa carambolare il pallone sulle caviglie del compagno o lo lancia in mano agli spettatori delle prime file. Ma è anche conseguenza della clamorosa e costante pressione difensiva granata, che toglie fiato e idee, energie e lucidità, un’onda continua di energia che impedisce per tutta la partita a Ruzzier di impostare con serenità il gioco, per non parlare dei minuti nei quali il play triestino rifiata in panchina ed a sostituirlo nel compito, perlopiù improvvisando, rimangono Brown o Brooks.
Ed è, anche, conseguenza della scarsa convinzione, trasformatasi velocemente in frustrazione ed infine in desiderio di finirla prima possibile ed andare una buona volta sotto la doccia.
In una situazione del genere, in cui a naufragare è l’intero battello, parlare dei singoli non ha particolare senso.
Sono 5 i giocatori in doppia cifra, ma essenzialmente perchè sono i cinque ad essere sostanzialmente sempre impiegati.
Alla sufficienza potrebbero arrivare solo Markel Brown, che almeno ci ha messo muso duro ed attributi finché è rimasto in campo, il solito Uthoff multitasking e, forse, Jayce Johnson, il solito guerriero autoritario nel pitturato, ma talmente isolato alla mercé dei raddoppi e delle triplicazioni di marcatura non appena prova ad avvicinarsi a canestro dalla posizione di post, da risultarne letteralmente stritolato.
Anonima o insufficiente, talvolta gravemente insufficiente, la prestazione di tutti gli altri, compresa quella di un coaching staff colto alla sprovvista, incapace di gestire o perlomeno tentare di trovare contromisure in corsa all’onda di piena granata, con la ciliegina dell’espulsione del capo allenatore, frutto più del tentativo di dare una scossa emotiva alla squadra ed ai suoi collaboratori che di reale frustrazione.
Dove finiscano gli immensi meriti di una formazione che si è rialzata sulle gambe la prima volta a 21 secondi dalla sirena finale, e dove inizino i demeriti di una Trieste frastornata, probabilmente partita battuta nella propria testa già alla palla a due, apparsa scarica, sfiduciata e stanca, priva della solita verve, della consueta gioia nel giocare a pallacanestro, e priva, soprattutto di tre americani, è un esercizio perfettamente inutile.
Letti a posteriori, i segnali c’erano tutti, a cominciare dalla dichiarazioni di Jamion Christian in sede di presentazione della partita, che parlavano di una settimana di allenamenti non ottimale: potrebbe esserci stato qualche problema fisico di troppo, qualche assenza forzata, un po’ di stanchezza, un po’ di tensione.
Naturalmente non lo sapremo mai, anche se poi, per un motivo o per l’altro, il compito in classe si è risolto con una pesante insufficienza.
Il quarantello (abbondante) sulle spalle con il quale risale sull’aereo che la riporterà a Ronchi deve però rimanere un fardello di cui liberarsi in fretta, anche perchè che si perda di uno o di cinquanta, si tratta sempre e comunque di soli due punti in classifica non conquistati: l’umiliazione non deve quindi lasciare tossine nella testa e nelle gambe degli uomini di Jamion Christian, al contrario può essere il motore per una reazione d’orgoglio ed un pungolo per l’amor proprio di giocatori dall’esperienza troppo lunga e dalla mentalità troppo vincente per subire supinamente una legnata di questa portata senza voler immediatamente rialzare la testa, a cominciare dal primo allenamento del lunedì.
Anche perchè l’obiettivo playoff è ancora ben lungi dall’essere conquistato, favori da altri campo non ne arriveranno più ed in queste ultime 8 partite le avversarie avranno ognuna un obiettivo ben preciso e delineato da raggiungere, chi il primo posto, chi il terzultimo, chi l’ottavo.
Otto partite nelle quali la politica consueta ma talvolta, forse, eccessivamente prudenziale e conservativa della società potrebbe essere messa almeno temporaneamente in disparte magari con l’aiuto di un po’ di antidolorifico laddove non si sia in presenza di infortuni talmente gravi da imporre lo stop, anche perchè la volontà di arrivare al massimo dell’efficienza fisica quando più serve, durante la post season, ma non qualificarsi, sarebbe un esercizio un po’ fine a sé stesso…
Sarebbe, anche, discretamente importante comprendere il motivo della non pubblicamente annunciata esclusione di Justin Reyes: nelle ultime partite, pur sembrando fisicamente non particolarmente menomato, forse un po’ legato in difesa ma comunque molto reattivo in attacco, era stato impiegato solo in fugaci circostanze arrivando raramente ai dieci minuti fuori dalla panchina (avvicinandosi, piuttosto, ai cinque), per poi sparire del tutto al PalaShark nonostante sia stato aggregato alla comitiva per la trasferta.
Qual è il male oscuro che affligge il portoricano? Ha una ricaduta dei suoi malanni cronici alle ginocchia? E’ una scelta tecnica del coach ora che si ritrova in roster una valida alternativa (solo sulla carta, alla luce della prestazione insufficiente di McDermott in terra siciliana)?
Trieste si può permettere di “regalare” per scelta -o per necessità- un giocatore in un ruolo così importante, nel quale mediamente le dirette avversarie sono super coperte? E poi, perchè non dirlo pubblicamente?
Più legati ad un tentativo di pretattica l’inserimento a referto ed il riscaldamento interamente svolto da Valentine, che visivamente non pareva affatto sofferente, anche se evidentemente qualche fastidio dell’ultimo minuto deve averlo provato.
Il suo rientro contro la Virtus appare imprescindibile, e lo sarebbe anche quello di Colbey Ross, sebbene i tempi per quest’ultimo siano incerti ed imprevedibili.
Un rush finale che per Trieste diventa, dunque, un puzzle complesso e di difficile interpretazione, che richiederà una gestione attentissima, quasi chirurgica, dei giocatori da impiegare (o da lasciare in alternativa a riposto) e dei rischi che si è di conseguenza disposti a correre.
(diritti riservati TSportintheCity)
Crediti: foto Panda Images
Ph. Antonio Barzelogna
11-03-2025 13:37 In collaborazione con TSportintheCity – articolo di Francesco Freni
PALLACANESTRO TRIESTE-GIVOVA SCAFATI 88-75 (17-24; 39-34; 65-57)
PALLACANESTRO TRIESTE: Obljubech, Reyes 4, Deangeli 2, Uthoff 17, Ruzzier 18, Campogrande, Candussi 8, Brown 5, Brooks 11, McDermott 9, Johnson 14, Valentine. All. Christian.
GIVOVA SCAFATI: Gray 12, Sangiovanni, Zanelli, Anim 10, Ulaneo, Sorokas 10, Miaschi 11, Pinkins 8, Pezzella, Cinciarini 11, Maxhuni 4, Jovanovic 9.
All. Ramondino.
ARBITRI: Sahin, Dori e Nicolini.
TRIESTE – Nessuna crisi di rigetto, nessun contraccolpo dopo la reazione emotiva agli infortuni ed alle continue difficoltà che si era tradotta nella straordinaria vittoria su Treviso.
Nella giornata nella quale l’intera comunità, con la squadra in prima fila, si stringe attorno ai familiari della spettatrice deceduta in seguito ad un malore accusato in palazzetto giusto una settimana prima, presenti in prima fila al PalaTrieste, la squadra biancorossa è ancora priva di 2/5 di quintetto base (nonostante l’apparizione a referto di Denzel Valentine, poi rimasta solo sulla carta, avesse illuso più di qualcuno per qualche minuto) ma decisamente non si nota affatto.
La capacità di questa squadra, morale ancora prima che tecnica, di ricompattarsi trovando partita dopo partita nuovi equilibri, nuove gerarchie e distribuzione meticolosa delle responsabilità, probabilmente non ha eguali in tutta la Serie A di quest’anno.
Mancano due solisti finalizzatori che attirano su di loro le attenzioni di ogni difesa avversaria creando autostrade per i compagni? Ok, giochiamo di squadra, non lasciamo prevedere chi metteremo in ritmo, chi libereremo sul perimetro, chi cercheremo spalle a canestro, chi isoleremo per l’uno contro uno.
Abbiamo la necessità di ricreare la produzione di punti, una trentina se va bene, che solitamente fatturano Valentine e Ross? Beh, nel gioco della pallacanestro lo scopo è quello di segnare almeno un punto più dell’avversario, e dunque è sufficiente elevare a dismisura la pressione difensiva, l’organizzazione nel back court fatta di continui aiuti, di raddoppi sistematici, di attenzione ad evitare il pick and roll, di show dei lunghi che escono sulla linea da tre punti ad impedire a Mashuni e Gray di ricevere palla in ritmo e piedi a terra.
E poi, di capacità di comprendere ed anticipare il pensiero dell’avversario, ed in ultima analisi di una ferocia agonistica che induce a difendere mani addosso costantemente sul filo del fallo per fare in modo che una squadra che solitamente realizza 84 punti a partita si fermi a 73, compiendo così tre quarti dell’opera.
Anche perchè, dall’altra parte del campo, una Givova la cui lunghezza e determinazione forse erano state sopravvalutate alla vigilia, non è in grado di fare altrettanto (tranne nei fugaci minuti iniziali del primo quarto), dimostrando di soffrire tantissimo la distribuzione chirurgica e la varietà delle soluzioni offensive biancorosse. Del resto il direttore d’orchestra, unico rimasto in dotazione a Jamion Christian ma su livelli di rendimento che dieci anni fa gli avrebbero garantito il quintetto base in azzurro anche agli Europei, nei 34 minuti trascorsi sul parquet è letteralmente il classico bignamino “Playmaker for dummies”: Michele Ruzzier, a 32 anni, fa sembrare semplice ogni soluzione, gestisce i ritmi con il metronomo installato nel cervello, trova i compagni fiutandone il momento e la convinzione più che il posizionamento (Jayce Johnson e Francesco Candussi, fra gli altri, ne beneficiano a turno), si ricorda che ok, va bene far segnare poco gli avversari, ma bisognerà pur metterla dentro all’altra estremità del campo, e quindi si mette sempre più spesso in proprio, tornando ad essere anche il realizzatore che si era scoperto essere durante la cavalcata vincente della passata stagione.
Ma, stavolta, non più contro mediocri mestieranti o ragazzini di A2, bensì contro esterni americani e ragazzi nel giro della nazionale.
La sua tripla a fil di sirena nel terzo quarto (lo aveva già fatto da posizione impossibile contro Treviso a fine primo tempo, e dunque non è certo un caso) è probabilmente l’azione che piazza la mazzata definitiva sul morale della squadra campana.
Nell’ennesima serata senza go-to-men designati, un bottino di punti consistente ed un tabellino popolato da statistiche in doppia cifra sarebbe stata l’aspettativa logica per la prestazione di Markel Brown: se, però, il leader atteso si ferma a cinque punti e si vince comunque di tredici, significa che la squadra è ormai in grado di mettere in atto in corso d’opera scelte tecniche alternative che non necessariamente sono le stesse nell’arco dei 40 minuti.
Quando Trieste finisce sotto di dieci nel secondo quarto, è un quintetto privo di entrambe torri a permettere il 12-1 che le ridona la conduzione delle operazioni: la versione small ball con Jeff Brooks, Jarrod Uthoff e Sean McDermott coadiuvati a tratti da un Justin Reyes sempre reattivo ma un po’ più confusionario del solito, è devastante in difesa e letale in transizione, ed è la chiave della la riscossa che instilla il primo tarlo nella testa di avversari che si erano inizialmente illusi di poter giocare perlomeno una gara punto a punto provando magari a buttarla in bagarre.
Gli esterni triestini mostrano una pulizia tecnica top level, che giocatori che basano sull’istintività condita da un po’ di talento le loro prestazioni come Gray e Mixhuni non sono nemmeno lontanamente in grado di eguagliare.
Oltre a ciò, Trieste mostra estrema dedizione nella difesa “a metà campo”, quella che le permette di impedire facili contropiede (che in un paio di volte si sono conclusi con una stoppata da parte del difensore triestino rientrato ad impedire canestri praticamente già fatti).
Ed inoltre, la cattiveria di Sean McDermott nell’impedire ad Andrea Cinciarini nell’esibirsi nella specialità della casa, l’assist per il compagno meglio posizionato, innervosisce il playmaker titolare di Ramondino, tagliando alla squadra la quasi totalità dei rifornimenti.
E’, anche, la fase nella quale il pubblico fiuta il momento e comprende che diventa indispensabile veicolare tutta l’energia di cui è dotato sul parquet.
La squadra la assorbe, ne viene quasi sollevata e sospinta, le energie mentali vengano metabolizzate in energia fisica, gli avversari ne vengono annichiliti.
Compiuto il capolavoro del rientro-lampo dallo svantaggio in doppia cifra ben prima di andare negli spogliatoi, il terzo quarto torna ad essere terreno di caccia per i lunghi: da un lato Pinkins e Jovanovic non riescono letteralmente mai ad avvicinarsi al ferro, e quando lo fanno vengono brutalizzati anche dai piccoli, dall’altro lato prima Johnson e poi Candussi infilano una striscia stordente (il primo da sotto, dove è sempre più dominante dal punto di vista fisico, il secondo soprattutto da fuori) che tengono Scafati costantemente ad una distanza che fluttua fra i due ed i tre possessi.
Non sono, però, solo i due lunghi triestini a determinare il dominio assoluto sotto il ferro: Trieste conquista 43 rimbalzi (15 più degli avversari) senza che nessuno, tranne Jeff Brooks, riesca ad andare in doppia cifra nella voce statistica.
Di più, ben 16 di questi sono rimbalzi offensivi, e costituiscono esattamente la metà dei tiri sbagliati da Trieste.
In altre parole, nel 50% delle occasioni nelle quali i biancorossi falliscono una conclusione, riescono a rimediare con seconde e talvolta terze chance: nessuna squadra avversaria, davanti a numeri simili, può pensare di venire a vincere in trasferta al Palatrieste.
Ed infine, gli esterni tornano ad essere protagonisti nel quarto decisivo, quando la gestione del cronometro inizia a far parte integrante della costruzione della vittoria, con tanti minuti importanti concessi a Lodo Deangeli, che risponde con un sontuoso rendimento difensivo, divertendosi anche a venir pescato al momento giusto nel posto giusto con i giri giusti dal compagno di lungo corso Michele Ruzzier.
La costante fra le due versioni triestine è un Jeff Brooks monumentale, un all around capace di dar fiato a Ruzzier portando su palla così come di giostrare spalle a canestro, di tirare da tre punti così come di posizionarsi perfettamente per catturare il rimbalzo in attacco di rimproverare così come di incoraggiare i compagni.
La doppia doppia da 11 punti e 10 rimbalzi lo rendono, per l’ennesima volta, il match winner della serata.
La sua esperienza infinita declinata a vantaggio della squadra è probabilmente il più grande valore aggiunto, forse quello realmente indispensabile per Jamion Christian, che a domanda specifica risponde con un disarmante quanto eloquente “che volete che vi dica… Jeff sa giocare a pallacanestro”.
Lo andiamo ripetendo da mesi, da prima che inizi il campionato: a 36 anni l’italiano d’America è un patrimonio cestistico restituito all’intera Serie A.
A proposito di Jamion Christian, last but not least, il coach americano ed i suoi collaboratori hanno ormai raggiunto una sintonia che rasenta la perfezione. Comprendono i loro uomini e le loro caratteristiche, sono capaci di declinarle in funzione delle situazioni, anche le più difficili e disperate, studiano le avversarie preparando piani partita che sono in grado di adattare in corso d’opera, centellinano le rotazioni e dosano le forze dei leader superstiti in modo da poterli riavere tutti al top quando più conta.
Da Cenerentolo spaurito nel settembre 2023 a possibile candidato a coach dell’anno in Serie A: naturalmente manca ancora la parte più importante della stagione il cui esito farà tutta la differenza del mondo, ma la capacità di adattamento mostrata in così poco tempo da un uomo che contro tutto e tutti era stato scelto a sorpresa da un GM visionario lo rende di per sé stesso l’allenatore più ammirato della massima serie.
Come ampiamente prevedibile, nessun aiuto arriva dagli altri campi: Venezia approfitta del hara-kiri di Sassari e vince in volata per la seconda settimana di seguito, rimanendo così a fare da pericolosissima nona incomoda nella corsa ai playoff.
Vince all’overtime anche Tortona, che approfitta delle nefandezze di una Varese che era avanti di sei punti a un minuto e mezzo dalla fine.
Vince anche Milano, recuperando 15 punti di svantaggio a Treviso, senza però che questa costituisca una sorpresa.
Trapani si impone a Reggio Emilia conservando quattro punti di vantaggio su Trieste in vista della terza sfida stagionale fra le due neopromosse in programma sabato prossimo, ma consentendo almeno a Trieste di raggiungere gli Emiliani sopravanzandoli in classifica al sesto posto.
Senza storia la vittoria di Brescia a Pistoia (che non può certo ripetere miracoli sportivi ad ogni partita), mentre la Virtus ha la meglio su Trento nella sfida del Monday Night Game.
In Sicilia Trieste si presenterà certamente senza Colbey Ross, c’è qualche (ridotta) speranza nel veder rientrare Valentine, che perlomeno non pareva sofferente durante lo shootaround prima del riscaldamento pre partita.
Ma, ancora una volta, non è affatto importante chi non salirà sull’aereo venerdì mattina: è molto più importante, invece, chi su quell’aereo -chiunque sia- ci salirà.
(diritti riservati TSportintheCity)
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Ph. Antonio Barzelogna
11-03-2025 13:06
3-03-2025 20:54 In collaborazione con TSportintheCity – articolo di Francesco Freni
PALLACANESTRO TRIESTE-NUTRIBULLET TREVISO 85-73 (18-18; 45-33; 65-51 )
PALLACANESTRO TRIESTE: Obljubech, Crnobrnja, Reyes 8, De Angeli, Uthoff 11, Ruzzier 12, Campogrande, Candussi 5, Brown 22, Brooks 5, McDermott 3, Johnson 19. All. Christian.
NUTRIBULLET TREVISO: Bowman 25, Harrison 9, Torresani, Mascolo 7, Scialpi, Mazzola 2, Mezzanotte, Caroline 2, Pellegrino 2, Olisevicius 11, Paulicap 8, Macura 7. All. Vitucci.
ARBITRI: Grigioni, Paglialunga e Bartolomeo.
TRIESTE – Più forti delle assenze, più forti del “down” post Coppa Italia. Più forti anche del Palatrieste e dell’ansia da prestazione che più di 6000 tifosi rischiano di metterti addosso, diventando paradossalmente una remora mentale.
Più forti, in ultima analisi, di una Treviso arrivata in via Flavia al gran completo e ben determinata a tornare a vincere per rimanere perlomeno agganciata al treno che porta ai playoff, oltretutto al termine di tre settimane di riposo ed allenamento durante le quali ha avuto tutto il tempo ed il modo di pensare e perfezionare le contromisure da usare contro una squadra priva dei suoi due ball handler da quintetto.
Trieste fa di nuovo sua la filosofia next man up, la eleva all’ennesima potenza e la applica in modo ormai scientifico.
Non è possibile per nessuna delle 16 squadre di Serie A sperare di poter approfittare delle difficoltà e della sfortuna che perseguitano i ragazzi di Jamion Christian dall’inizio della stagione senza tener conto della loro forza d’animo, della loro capacità di risistemare in itinere equilibri e responsabilità, gerarchie e soluzioni sui due lati del campo, di attutire l’effetto delle assenze metabolizzandolo e trasformandolo, anzi, in energia positiva.
Non tenere in considerazione tale aspetto distintivo del roster triestino (che oggettivamente non smette ancora di sorprendere in positivo e spiazzare anche i suoi stessi tifosi) significa finirne emotivamente stritolato, annichilito prima dal punto di vista mentale e conseguentemente da quello tecnico.
E’ come gettare un masso nelle sabbie mobili: la leggera increspatura che ne consegue genera qualche onda attutita, ma poi, quasi immediatamente, tutto torna piatto, compatto e letale, come se nulla fosse successo. Solo che il masso ne viene inghiottito senza lasciare alcuna traccia.
Contro Treviso era abbastanza logico prevedere l’aggressione sistematica all’unico portatore di palla titolare rimasto, magari anche ai limiti del regolamento, con difesa mani addosso da parte di una staffetta costituita da Mascolo, Bowman, Harrison e Torresani con l’obiettivo di innervosirlo, provocare palle perse, magari caricarlo di falli.
Michele, però, non fa una piega, anche perché il piano partita ordito da Frank Vitucci (che a lungo fu la vera bestia nera per i colori triestini… decisamente un’altra era geologica) non sortisce alcun effetto vista anche l’intensità decisamente blanda con la quale i suoi esterni approcciano il compito contro un giocatore al culmine di uno dei suoi momenti top in carriera, suggellato da un buzzer beater da metà campo alla fine del primo tempo che rischia di demolire il PalaTrieste coi soli decibel prodotti di conseguenza.
Jamion Christian lo capisce e concede al suo playmaker il lusso di poter rifiatare dando a sorpresa minuti importanti a Max Obljubech, oppure addirittura rinunciando ai due numeri “uno” di ruolo chiedendo ad un monumentale Markel Brown di fare per qualche minuto pentole e coperchi.
Una volta compreso che quello della regia non sarebbe stato un problema insormontabile, Trieste mette in atto il meccanismo che l’ha resa la squadra più imprevedibile della LBA: riassesta il suo gioco, offensivamente molto accentrato in presenza di Valentine e Ross, distribuendo in modo esteso le responsabilità nella produzione di punti, bilanciando in modo razionale le conclusioni da fuori con quelle da sotto (per una volta, prova più tiri da due -36- che da tre -29-), cercando con continuità di mettere in movimento Jayce Johnson verso il ferro, oppure mostrando nuovamente le capacità nell’uno contro uno di un Justin Reyes tornato per qualche momento quello dei playoff 2024.
McDermott e Uthoff tirano male (il primo peggio del secondo), ma i loro tentativi sono sempre ben costruiti ed hanno il pregio di costringere la difesa a muoversi verso l’esterno, creando i presupposti per la cattura di una montagna di rimbalzi in attacco trasformati quasi sempre in seconde e terze chance letali.
Il solo centro californiano ne cattura 6 dei suoi 9 complessivi nel pitturato trevigiano, ed è solo uno dei segnali del suo strapotere assoluto, anche fisico, in area contro avversari che sulla carta e nelle previsioni sembravano fatti apposta per metterlo in difficoltà (Paulicap ne esce, invece, annichilito).
La prestazione balistica sotto media delle due ali americane triestine, però, viene ampiamente compensata da una fase difensiva che, in ultima analisi, permette di piazzare il break a metà secondo quarto che produce un gap che Treviso non sarà mai più in grado di riportare sotto la doppia cifra.
In particolare Sean McDermott sporca la prestazione di Olisevicius, uno dei tiratori più temibili del campionato, apparso però spesso innervosito, costantemente in ritardo nel costituire un terminale credibile per i compagni ed autore, alla fine, di una prestazione al tiro lontana anni luce dal suo standard potenziale.
E’ proprio in difesa che Trieste costruisce la sua vittoria: un capolavoro che costringe Treviso ad attaccare in modo convulso ed irrazionale, poco organizzato ed accentrato su pochi giocatori, Ky Bowman in particolare, gente che puoi permetterti di “battezzare” perché tanto sono capaci di tirare e segnare da ogni posizione con la mano dell’avversario sul naso, costringendoli però ad un gioco monodimensionale e prevedibile, che alla lunga non può pagare se non supportata da un rendimento perlomeno sufficiente da parte di giocatori resi totalmente innofensivi come JP Macura o un irriconoscibile (per mancanza di personalità) D’Angelo Harrison.
La doppia doppia da 22 punti e 10 rimbalzi del nuovo triestino acquisito Markel Brown (il pluriennale appena firmato lo tratterrà in città sufficientemente a lungo per cominciare ad apprezzare le palacinke al posto dei brownies), unitamente alla solita iniezione di leadership e personalità, lo rendono di diritto il match winner contro la NutriBullet, ma il suo tabellino non deve fuorviare dalla constatazione di come sia stata più la squadra a permettergli di produrre quei numeri, piuttosto che i suoi numeri a consentire alla squadra di vincere.
Brown è “solo” un tassello del mosaico, per carità, un tassello d’oro zecchino, ma incastonato alla perfezione in una organizzazione che pare un orologio svizzero anche se privata di un paio di ingranaggi.
La vittoria contro Treviso ha prima di tutto l’effetto di tenere la squadra di Vitucci, forse definitivamente, a distanza di sicurezza in chiave playoff.
E poi permette a Trieste di mantenere inalterati gli equilibri ormai sclerotizzati da qualche settimana in classifica, all’immediato inseguimento del quinto posto occupato da Milano, sconfitta nel derby d’Italia dalla Virtus, e da una Reggio Emilia devastante contro Sassari.
Ma, anche, appena sopra l’ottavo posto di una Tortona che capitalizza con gli interessi il blackout post trofeo (che sarà anche un luogo comune, ma si verifica ogni anno puntuale come la morte) dell’Aquila Trento.
Domenica prossima per Trieste altra occasione fondamentale ma non priva di pericoli in via Flavia, contro una Scafati che ha tenuto con il fiato sospeso la Reyer per 45 minuti, ed alla disperata ricerca di punti salvezza soprattutto dopo l’impresa ben oltre i limiti dell’incredibile di una Pistoia semi disintegrata ma capace di andare a cogliere una vittoria a Napoli che, qualunque cosa succeda nelle prossime settimane, rimarrà scolpita negli annali della società toscana.
Con che roster Trieste affronterà i campani non è dato sapersi ma, tutto sommato, non è un particolare poi così importante…
(diritti riservati TSportintheCity)
Crediti: foto Panda Images
Ph. Antonio Barzelogna
2-03-2025 20:19
16-02-2025 20:14 In collaborazione con TSportintheCity – articolo di Francesco Freni
PALLACANESTRO TRIESTE – AQUILA BASKET TRENTO: 79-82
Trieste: Obljubech n.e., Reyes 0, Deangeli (k), Uthoff 7, Ruzzier 25, Campogrande n.e., Candussi 3, Brown 21, Brooks 0, McDermott 2, Johnson 2, Valentine 19.
Allenatore: Jamion Christian. Assistenti: Francesco Taccetti, Francesco Nanni, Nick Schlitzer.
Trento: Ellis 11, Cale 10, Ford 7, Pecchia 10, Niang 10, Forray, Mawugbe 8, Lamb 18, Zukauskas 8, Hassan.
Allenatore: Paolo Galbiati. Assistenti: Fabio Bongi, Davide Dusmet.
Arbitri: Lanzarini, Lo Guzzo, Gonella.
TORINO – Non è sufficiente un monumentale Michele Ruzzier da 25 punti e 24 di valutazione a dare l’ultimo pennello ad un’opera d’arte che rimane incompiuta. Trieste in semifinale contro una Trento più lunga, più strutturata, costruita per competere da protagonista in Europa e reduce da cinque vittorie consecutive in un campionato che sta dominando, inizia (come contro Trapani) barcollando, non trova il modo di costruire con raziocinio in attacco e non trova contromisure al dominio incontrastato degli avversari nel proprio pitturato, specie quando approfittano degli incerti aiuti dei lunghi biancorossi sul perimetro che liberano autostrade sotto canestro.
Ma la squadra triestina trova comunque il modo di non venire travolta, finisce sì sotto anche di 12 punti con l’inerzia totalmente in mano ad un’Aquila che sembra in grado di chiudere i giochi già nel primo tempo, ma riesce in un modo o nell’altro, affidandosi più ad iniziative sporadiche ed individuali di Denzel Valentine e Markel Brown che ad un gioco corale ed organizzato, a rimanere in scia, limando un po’ il gap fino a chiudere il primo tempo a distanza di partita apertissima. Trieste paga la poca chiarezza nel riassestare le gerarchie fra i piccoli in assenza di Colbey Ross, sebbene già nei primi venti minuti si intravvedano i presupposti della serata di grazia del playmaker triestino, ben deciso ad imporsi come vero padrone della squadra.
Le otto palle perse in venti minuti dai biancorossi descrivono con precisione il caos offensivo generato dai riassestamenti nella costruzione del gioco.Ma quella che rientra in campo dopo il riposo è una Trieste totalmente diversa, dura ed arrabbiata, e soprattutto molto più propensa a giocare più di squadra, a coinvolgere tutto il quintetto, a pensare di più prima di affidarsi al piano partita che prevede un tiro da lontano o lontanissimo nei primi cinque secondi di azione. Complice una Trento che forse riteneva troppo presto di poter disporre di avversari in difficoltà anche fisica, Michele Ruzzier guida un arrembaggio entusiasmante, detta i ritmi con autorevolezza, innesca i compagni e, soprattutto, fa quello che tutti vorrebbero che faccia in ogni singola partita dall’inizio della stagione: si mette in proprio in attacco, risultando letale sopattutto dai 6.75.
Certo Michele paga qualcosa in difesa contro un quintetto che praticamente non schiera italiani (se si eccettua qualche sprazzo poco produttivo di Pecchia e, naturalmente, un Niang devastante che farà le fortune della squadra azzurra), e quando viene attaccato in uno contro uno da Ellis, Cole e Lamb non può che rifugiarsi nel fallo o sperare nella puntualità degli aiuti dei compagni.
Trento perde fluidità in attacco e viene sovrastata a rimbalzo, dato più che sorprendente se si considera la serata negativa di Johnson (1 su cinque dal campo e 0 su 2 dalla lunetta, 7 rimbalzi in 18 minuti) ed i pochi minuti concessi a Candussi (solo 9), e Trieste ne approfitta nel suo miglior momento in attacco.
Certo, Makel Brown si intestardisce a concedere a Mawugbe la possibilità di allenarsi nelle veloci del volley venendone brutalizzato in modo sempre, cocciutamente uguale nel tentativo di andare dritto per dritto al ferro a difesa schierata, Uthoff prosegue nel suo periodo di blackout prolungato, inaugurato a Brescia e che non ha conosciuto riscosse né contro Trapani né in semifinale.
Oltretutto McDermott tocca pochissimi palloni e si prende ancora meno conclusioni, anche se si fa perdonare con una attenta prestazione in difesa.
Ciò nonostante, con Valentine, Brown, Ruzzier, McDermott e Uthoff, senza lunghi di ruolo, la squadra triestina sviluppa il suo massimo sforzo e si prende anche un vantaggio di 7 punti.
Sul finire del terzo quarto, però, accade quello che in stagione è successo un numero non quantificabile di volte: si fa male il go-to man per eccellenza, un Denzel Valentine di cui riesci a comprendere il valore in campo soprattutto quando in campo non c’è.
Il Barba esce, si fa curare, prova a rientrare in apertura di quarto quarto con la partita ancora apertissima a qualunque esito, ma proprio non ce la fa, commette il quinto fallo dopo aver perso un pallone praticamente fermo sulle gambe e torna zoppicando in panchina.
Da quel momento, a circa otto minuti dalla fine, con un uomo solo al comando, si spegne la luce: Jamion Christian praticamente non si gira nemmeno più verso la panchina e finirà con lo stesso quintetto che è costretto a schierare e che considera il più affidabile, insistendo nel privarsi dei due “5”.
Trento si riprende l’inerzia, ma non riesce a staccarsi mai, perchè Trieste non ha nel suo DNA la parola “resa”, nemmeno se dovesse rimanere con quattro giocatori sul parquet. Anzi, è proprio nell’ultima parte di incontro, con coach Galbiati a ruotare vorticosamente i suoi uomini in modo da arrivare negli istanti decisivi con i migliori cinque freschi e riposati, che Trieste sbanda, perde palloni banali, gioca in apnea ma rimane cocciutamente attaccata alla partita come una cozza su uno scoglio barcolano.
Trento, improvvisamente, annusa l’odore del sangue ed eleva a dismisura la pressione difensiva, facendo valere la sua stazza e la sua esuberanza atletica, e le è sufficiente farlo per due o tre azioni consecutive per abbattere la resistenza dei biancorossi, che avrebbero comunque nelle mani, incredibilmente, l’occasione irripetibile di giocarsi l’ultima azione per provare addirittura il tiro della vittoria.
Ma quando arrivi a quell’azione vedendo il mondo a pois per mancanza di ossigeno, ci arrivi necessariamente con una lucidità a dir poco latente.
La partita finisce lì, con Markel Brown a terra dopo aver perso quell’ultimo pallone ad osservare da sdraiato il contropiede di Trento.
Se il successivo tiro per il pareggio da metà campo (peraltro ben preso da Michele Ruzzier che sfiora una tripla de tabela sulla sirena) fosse entrato, con Brooks nel frattempo uscito per cinque falli, i cinque minuti supplementari si sarebbero probabilmente trasformati in un’inutile agonia.
Finisce così, con Trento a festeggiare la conquista di una finale che ha meritato e Trieste ad interrogarsic cosa le manca per poter sedere in modo credibile e definitivo al tavolo delle grandi.
Oddio, cosa le manca appare piuttosto chiaro, ma questa stagione è da considerarsi solo il primo passo del percorso che la porterà in quella direzione, e per ora è già rassicurante poter constatare che, in una partita secca, Trieste può giocarsela alla pari con chiunque.
Se da una bruciante sconfitta al fotofinish in semifinale contro la capolista si può prendere qualcosa di buono in prospettiva, è forse il fatto che una Trieste acciaccata e tornata cortissima evita un ulteriore sforzo ravvicinato in finale contro una Milano tornata ad essere una schiacciasassi da Eurolega, risparmiandosi così il rischio di aggravare una situazione fisica che potrebbe avere ripercussioni pesanti in campionato.
Discorso difficile da fare nel momento della delusione, è chiaro che tutti avrebbero preferito arrivare fino in fondo alla competizione e giocarsi anche la minima possibilità di mettere una buona volta questo maledetto, sospirato primo trofeo in bacheca, ma quando le risorse umane sono numericamente limitate è anche necessario essere un po’ meno sognatori ed un po’ più pragmatici.
Da domani la squadra di Christian potrà iniziare a ricaricare le pile, a recuperare energie, magari a prendersi qualche giorno di riposo ma anche a dedicarsi a recuperare al massimo dell’efficienza Valentine (da valutare il suo infortunio, apparentemente di natura muscolare ad un polpaccio), coinvolgere maggiormente McDermott nei meccanismi offensivi della squadra, capire qualcosa di più sui tempi di recupero di Colbey Ross (e magari approfittare di queste due settimane per iniziare il periodo di rieducazione del pollice operato), e perfezionare un piano B ben chiaro durante la sua assenza, lavorare sullo stato di forma di Justin Reyes, impiegato in modo molto fugace a Torino (solo due minuti in campo contro Trento), reattivo nel suo territorio di caccia preferito in attacco ma ancora troppo piantato a terra in difesa.
Ma, anche, fare tutte queste cose tornando in città con la piena consapevolezza di aver conquistato un posto fra le prime quattro con assoluto merito, di essere riusciti a competere con chiunque dimostrando resistenza e carattere, di essersi confermati quella squadra che nessuno, proprio nessuno, sarà felice di incontrare ai playoff.
Playoff che, peraltro, sono ancora ben lungi dall’essere conquistati: nel mese di marzo si torna, però, a poter sfruttare l’effetto Palatrieste, con tre partite su quattro da giocare in casa (Treviso, Scafati e, dopo la trasferta a Trapani, la Virtus Bologna).
Trieste si risveglia da un bel sogno, cullato e quasi materializzato. Ma nessun dramma, nessun rimpianto: materiale per migliorarsi, spigoli da smussare, autoanalisi da approfondire, come del resto dopo ogni sconfitta.
Ma tanta serenità e la consapevolezza di aver ulteriormente consolidato un entusiasmo tornato palpabile in città.
Ah, un’ultima cosa: #ruzzinnaz !
(diritti riservati TSportintheCity)
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Ph. Antonio Barzelogna
14-02-2025 14:17 In collaborazione con TSportintheCity – articolo di Francesco Freni
PALLACANESTRO TRIESTE – TRAPANI SHARK: 74-72
Trieste: Obljubech n.e., Reyes 4, Deangeli (k), Uthoff 4, Ruzzier 11, Campogrande n.e., Candussi 11, Brown 9, Brooks 10, McDermott 3, Johnson 11, Valentine 11.
Allenatore: Jamion Christian. Assistenti: Francesco Taccetti, Francesco Nanni, Nick Schlitzer.
Trapani: Notae 4, Horton 11, Robinson 17, Rossato 4, Alibegovic 18, Galloway 4, Petruccelli, Yeboah 2, Mollura (k) n.e., Gentile 2, Brown 9, Eboua 1.
Allenatore: Jasmin Repesa. Assistenti: Andrea Diana, Alex Latini, Isaac Jenkins.
Arbitri: Sahin, Bartoli, Dori.
TORINO – Quando qualcuno si chiede perché, nell’estate che segna il kickoff di un nuovo ciclo, un progetto duraturo che porti la Trieste cestistica nel futuro, uno degli scout più esperti d’Europa va a scegliere come primo tassello un giocatore trentaseienne che nelle ultime stagioni aveva mestamente sventolato asciugamani in una palestra mestrina, può mettersi comodo e riguardarsi l’intero quarto di finale giocato da Jeff Brooks contro Trapani, di cui la rubata ed il buzzer beater vincente sono solo la punta dell’iceberg.
Brooks la Coppa Italia l’ha già vinta due volte, ma non è solo la sua esperienza in questo genere di partite senza un domani a renderlo a mani basse il match winner del quarto di finale contro Trapani.
Non lo sono nemmeno le fredde statistiche che riporta il tabellino a fine partita, che a ben vedere non parla di una prestazione numericamente clamorosa.
Invece, vederlo catechizzare i compagni più indisciplinati durante i time out (Denzel Valentine), vederlo dialogare in campo con i go-to men per dare loro coraggio o dare preziose indicazioni, lo rendono il leader occulto, l’allenatore in campo, un vero e proprio tesoro cestistico restituito nella parte finale della sua carriera alla pallacanestro italiana.Santificato il matador, c’è però da inchinarsi davanti al carattere di una squadra che disputa nell’attesissimo quarto di finale a Torino forse la peggior partita della stagione dal punto di vista tecnico, con percentuali da oltre l’arco che si fermano al 25%, che la vede soccombere a rimbalzo, che la vede rincorrere dopo un inizio raccapricciante in attacco e perdere pericolosamente di mano l’inerzia della partita a due minuti dalla fine.
Ma che è anche capace di mettere subito una pezza nel primo quarto all’emorragia offensiva difendendo in modo feroce e causando una marea di palle perse agli avversari, approfittando in modo cinico all’uscita prudenziale di Petrucelli quasi subito gravato di due falli e, soprattutto, di Justin Robinson vittima di un infortunio che pareva ben più grave di quanto si è fortunatamente dimostrato.
Trapani senza il suo leader difensivo e priva del suo più credibile ed imprevedibile terminale in attacco sembra dimezzata, e nonostante un ottimo Alibegovic, un Horton dominante soprattutto a rimbalzo, ed un Galloway che cresce con il passare dei minuti, subisce l’onda di ritorno di una Trieste magistralmente orchestrata da Michele Ruzzier, che sarà anche l’antitesi di Colbey Ross nel modo di interpretare il ruolo, ma nei 28 minuti passati sul parquet è un vero e proprio manuale di costruzione, organizzazione e gestione dei ritmi, in equilibrio fra sfrontatezza e razionalità.
A dire la verità, al netto dei soliti eccessi che rischiano di farne deragliare la prestazione, anche Denzel Valentine si crogiola nell’innescare i lunghi, e sceglie a ripetizione il suo compagno californiano come destinatario prioritario dei suoi confetti.
Johnson beneficia con gli interessi della crescita dell’intesa con i piccoli, e diventa di partita in partita più credibile come rollante: è di gran lunga più pericoloso in movimento che cercato spalle a canestro (movimento che richiede una quantità di tecnica di base che ancora latita), e sia Michele che Denzel lo hanno capito perfettamente, trovandolo spesso al centro di autostrade che portano direttamente al ferro.
L’alter ego nel reparto gli è complementare: la pericolosità dal perimetro di un centro che preferisce giocare lontano dal pitturato come Francesco Candussi costringono gli avversari ad allontanare i loro lunghi dall’area per cercare di andare a contrastare le conclusioni, e dal momento che Repesa rinuncia per scelta al Tibor Pleiss, il solo Horton non può certo sdoppiarsi, finendo per sfinirsi.
Valentine è il solito imprevedibile pazzo, capace di passare un pallone sulle caviglie di un compagno e, nell’azione successiva, di inventarsi una tripla da nove metri. Anche per lui vale il discorso fatto per Candussi: uno del genere -che segni o no- non lo puoi battezzare, ma raddoppiarlo o triplicarlo implica necessariamente scelte e sacrifici difensivi che alla lunga diventano decisivi.
Sono, però, anche 38 minuti di passione per Markel Brown e Jarrod Uthoff, i protagonisti biancorossi forse più attesi nella kermesse, che però litigano con la partita senza riuscire mai ad interpretarla nel modo corretto.
Salvo, poi, infilare con freddezza glaciale i tiri liberi gentilmente offerti dalle scelte suicide di Yeboah e Brown (quello trapanese) che vanno a commettere fallo ad un chilometro dal proprio canestro con la squadra in bonus, regalando così a Trieste la possibilità di limare progressivamente il gap a cronometro fermo quando tale gap pareva oggettivamente incolmabile sul -7 a poco più di due minuti dalla fine.
L’assenza di Ross costringe coach Christian a ricercare riassestamenti dei quintetti finendo per schierarne di curiosi: in particolare uno, molto alto e fisico con McDermott, Reyes, Johnson, Valentine e Uthoff in campo contemporaneamente, permette di arginare lo tsunami sotto canestro generato da Horton e Alibegovic. In attesa del rientro del play americano, comunque, ci sarà ancora moltissimo da lavorare in questo senso.
Ma, alla fine, possiamo passare il Valentine’s day a ricercare ed analizzare tutti i risvolti tecnici di una partita rocambolesca senza venire a capo di un risultato apparentemente inspiegabile.
In verità, Trieste vince su Trapani perchè si dimostra più squadra, perchè è capace di reagire collettivamente ai momenti di down senza doversi affidare per forza all’uomo solo al comando (al Justin Robinson della situazione, per intenderci), perchè non si arrende letteralmente mai, perchè l’avversario ha di fronte giocatori che barcollano, sbandano, subiscono canestri e trash talking ma rimangono in piedi, schiena dritta, muso duro, determinazione incrollabile nascosta dietro una patina di disarmante tranquillità.
Una determinazione che permette loro di andare a deviare e controllare il pallone che avrebbe dovuto regalare la vittoria ai più forti ma che due secondi dopo attraverserà la loro retina.
A sospingere il palleggio di Jeff Brooks nella cavalcata vincente è un’intera squadra, un’intera città che da decenni attende di vivere momenti come questo.
Che anche di giovedì sera a metà febbraio si sciroppa 700 chilometri per rimanere senza voce alle 11 di sera, e che fra due giorni si perderà di buon grado la finale di Sanremo perchè, di finali, ce n’è un’altra da conquistare e da giocare domenica pomeriggio.
Trento, vittoriosa non senza fatica nell’altro quarto di finale contro Reggio Emilia e presente a bordo campo per studiare i prossimi avversari, si gode ben poco la sconfitta della squadra sulla carta più pericolosa.
Si troverà infatti di fronte in semifinale una serpe velenosissima, che non sai mai se, quando e dove andrà a morderti se solo pensi di poterti permettere di abbassare la guardia o di sottovalutarla.
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(Photo Credit: ufficio stampa Pallacanestro Trieste)
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