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In collaborazione con TSportintheCity – articolo di Francesco Freni

PALLACANESTRO TRIESTE – AQUILA BASKET TRENTO: 79-82
Trieste: Obljubech n.e., Reyes 0, Deangeli (k), Uthoff 7, Ruzzier 25, Campogrande n.e., Candussi 3, Brown 21, Brooks 0, McDermott 2, Johnson 2, Valentine 19.
Allenatore: Jamion Christian. Assistenti: Francesco Taccetti, Francesco Nanni, Nick Schlitzer.
Trento: Ellis 11, Cale 10, Ford 7, Pecchia 10, Niang 10, Forray, Mawugbe 8, Lamb 18, Zukauskas 8, Hassan.
Allenatore: Paolo Galbiati. Assistenti: Fabio Bongi, Davide Dusmet.

Arbitri: Lanzarini, Lo Guzzo, Gonella.

TORINO – Non è sufficiente un monumentale Michele Ruzzier da 25 punti e 24 di valutazione a dare l’ultimo pennello ad un’opera d’arte che rimane incompiuta. Trieste in semifinale contro una Trento più lunga, più strutturata, costruita per competere da protagonista in Europa e reduce da cinque vittorie consecutive in un campionato che sta dominando, inizia (come contro Trapani) barcollando, non trova il modo di costruire con raziocinio in attacco e non trova contromisure al dominio incontrastato degli avversari nel proprio pitturato, specie quando approfittano degli incerti aiuti dei lunghi biancorossi sul perimetro che liberano autostrade sotto canestro.
Ma la squadra triestina trova comunque il modo di non venire travolta, finisce sì sotto anche di 12 punti con l’inerzia totalmente in mano ad un’Aquila che sembra in grado di chiudere i giochi già nel primo tempo, ma riesce in un modo o nell’altro, affidandosi più ad iniziative sporadiche ed individuali di Denzel Valentine e Markel Brown che ad un gioco corale ed organizzato, a rimanere in scia, limando un po’ il gap fino a chiudere il primo tempo a distanza di partita apertissima. Trieste paga la poca chiarezza nel riassestare le gerarchie fra i piccoli in assenza di Colbey Ross, sebbene già nei primi venti minuti si intravvedano i presupposti della serata di grazia del playmaker triestino, ben deciso ad imporsi come vero padrone della squadra.
Le otto palle perse in venti minuti dai biancorossi descrivono con precisione il caos offensivo generato dai riassestamenti nella costruzione del gioco.Ma quella che rientra in campo dopo il riposo è una Trieste totalmente diversa, dura ed arrabbiata, e soprattutto molto più propensa a giocare più di squadra, a coinvolgere tutto il quintetto, a pensare di più prima di affidarsi al piano partita che prevede un tiro da lontano o lontanissimo nei primi cinque secondi di azione. Complice una Trento che forse riteneva troppo presto di poter disporre di avversari in difficoltà anche fisica, Michele Ruzzier guida un arrembaggio entusiasmante, detta i ritmi con autorevolezza, innesca i compagni e, soprattutto, fa quello che tutti vorrebbero che faccia in ogni singola partita dall’inizio della stagione: si mette in proprio in attacco, risultando letale sopattutto dai 6.75.
Certo Michele paga qualcosa in difesa contro un quintetto che praticamente non schiera italiani (se si eccettua qualche sprazzo poco produttivo di Pecchia e, naturalmente, un Niang devastante che farà le fortune della squadra azzurra), e quando viene attaccato in uno contro uno da Ellis, Cole e Lamb non può che rifugiarsi nel fallo o sperare nella puntualità degli aiuti dei compagni.
Trento perde fluidità in attacco e viene sovrastata a rimbalzo, dato più che sorprendente se si considera la serata negativa di Johnson (1 su cinque dal campo e 0 su 2 dalla lunetta, 7 rimbalzi in 18 minuti) ed i pochi minuti concessi a Candussi (solo 9), e Trieste ne approfitta nel suo miglior momento in attacco.
Certo, Makel Brown si intestardisce a concedere a Mawugbe la possibilità di allenarsi nelle veloci del volley venendone brutalizzato in modo sempre, cocciutamente uguale nel tentativo di andare dritto per dritto al ferro a difesa schierata, Uthoff prosegue nel suo periodo di blackout prolungato, inaugurato a Brescia e che non ha conosciuto riscosse né contro Trapani né in semifinale.
Oltretutto McDermott tocca pochissimi palloni e si prende ancora meno conclusioni, anche se si fa perdonare con una attenta prestazione in difesa.
Ciò nonostante, con Valentine, Brown, Ruzzier, McDermott e Uthoff, senza lunghi di ruolo, la squadra triestina sviluppa il suo massimo sforzo e si prende anche un vantaggio di 7 punti.
Sul finire del terzo quarto, però, accade quello che in stagione è successo un numero non quantificabile di volte: si fa male il go-to man per eccellenza, un Denzel Valentine di cui riesci a comprendere il valore in campo soprattutto quando in campo non c’è.
Il Barba esce, si fa curare, prova a rientrare in apertura di quarto quarto con la partita ancora apertissima a qualunque esito, ma proprio non ce la fa, commette il quinto fallo dopo aver perso un pallone praticamente fermo sulle gambe e torna zoppicando in panchina.
Da quel momento, a circa otto minuti dalla fine, con un uomo solo al comando, si spegne la luce: Jamion Christian praticamente non si gira nemmeno più verso la panchina e finirà con lo stesso quintetto che è costretto a schierare e che considera il più affidabile, insistendo nel privarsi dei due “5”.
Trento si riprende l’inerzia, ma non riesce a staccarsi mai, perchè Trieste non ha nel suo DNA la parola “resa”, nemmeno se dovesse rimanere con quattro giocatori sul parquet. Anzi, è proprio nell’ultima parte di incontro, con coach Galbiati a ruotare vorticosamente i suoi uomini in modo da arrivare negli istanti decisivi con i migliori cinque freschi e riposati, che Trieste sbanda, perde palloni banali, gioca in apnea ma rimane cocciutamente attaccata alla partita come una cozza su uno scoglio barcolano.
Trento, improvvisamente, annusa l’odore del sangue ed eleva a dismisura la pressione difensiva, facendo valere la sua stazza e la sua esuberanza atletica, e le è sufficiente farlo per due o tre azioni consecutive per abbattere la resistenza dei biancorossi, che avrebbero comunque nelle mani, incredibilmente, l’occasione irripetibile di giocarsi l’ultima azione per provare addirittura il tiro della vittoria.
Ma quando arrivi a quell’azione vedendo il mondo a pois per mancanza di ossigeno, ci arrivi necessariamente con una lucidità a dir poco latente.
La partita finisce lì, con Markel Brown a terra dopo aver perso quell’ultimo pallone ad osservare da sdraiato il contropiede di Trento.
Se il successivo tiro per il pareggio da metà campo (peraltro ben preso da Michele Ruzzier che sfiora una tripla de tabela sulla sirena) fosse entrato, con Brooks nel frattempo uscito per cinque falli, i cinque minuti supplementari si sarebbero probabilmente trasformati in un’inutile agonia.
Finisce così, con Trento a festeggiare la conquista di una finale che ha meritato e Trieste ad interrogarsic cosa le manca per poter sedere in modo credibile e definitivo al tavolo delle grandi.
Oddio, cosa le manca appare piuttosto chiaro, ma questa stagione è da considerarsi solo il primo passo del percorso che la porterà in quella direzione, e per ora è già rassicurante poter constatare che, in una partita secca, Trieste può giocarsela alla pari con chiunque.
Se da una bruciante sconfitta al fotofinish in semifinale contro la capolista si può prendere qualcosa di buono in prospettiva, è forse il fatto che una Trieste acciaccata e tornata cortissima evita un ulteriore sforzo ravvicinato in finale contro una Milano tornata ad essere una schiacciasassi da Eurolega, risparmiandosi così il rischio di aggravare una situazione fisica che potrebbe avere ripercussioni pesanti in campionato.
Discorso difficile da fare nel momento della delusione, è chiaro che tutti avrebbero preferito arrivare fino in fondo alla competizione e giocarsi anche la minima possibilità di mettere una buona volta questo maledetto, sospirato primo trofeo in bacheca, ma quando le risorse umane sono numericamente limitate è anche necessario essere un po’ meno sognatori ed un po’ più pragmatici.
Da domani la squadra di Christian potrà iniziare a ricaricare le pile, a recuperare energie, magari a prendersi qualche giorno di riposo ma anche a dedicarsi a recuperare al massimo dell’efficienza Valentine (da valutare il suo infortunio, apparentemente di natura muscolare ad un polpaccio), coinvolgere maggiormente McDermott nei meccanismi offensivi della squadra, capire qualcosa di più sui tempi di recupero di Colbey Ross (e magari approfittare di queste due settimane per iniziare il periodo di rieducazione del pollice operato), e perfezionare un piano B ben chiaro durante la sua assenza, lavorare sullo stato di forma di Justin Reyes, impiegato in modo molto fugace a Torino (solo due minuti in campo contro Trento), reattivo nel suo territorio di caccia preferito in attacco ma ancora troppo piantato a terra in difesa.
Ma, anche, fare tutte queste cose tornando in città con la piena consapevolezza di aver conquistato un posto fra le prime quattro con assoluto merito, di essere riusciti a competere con chiunque dimostrando resistenza e carattere, di essersi confermati quella squadra che nessuno, proprio nessuno, sarà felice di incontrare ai playoff.
Playoff che, peraltro, sono ancora ben lungi dall’essere conquistati: nel mese di marzo si torna, però, a poter sfruttare l’effetto Palatrieste, con tre partite su quattro da giocare in casa (Treviso, Scafati e, dopo la trasferta a Trapani, la Virtus Bologna).
Trieste si risveglia da un bel sogno, cullato e quasi materializzato. Ma nessun dramma, nessun rimpianto: materiale per migliorarsi, spigoli da smussare, autoanalisi da approfondire, come del resto dopo ogni sconfitta.
Ma tanta serenità e la consapevolezza di aver ulteriormente consolidato un entusiasmo tornato palpabile in città.
Ah, un’ultima cosa: #ruzzinnaz !

(diritti riservati TSportintheCity)
Crediti: foto Panda Images
Ph. Antonio Barzelogna

In collaborazione con TSportintheCity – articolo di Francesco Freni

PALLACANESTRO TRIESTE – TRAPANI SHARK: 74-72
Trieste: Obljubech n.e., Reyes 4, Deangeli (k), Uthoff 4, Ruzzier 11, Campogrande n.e., Candussi 11, Brown 9, Brooks 10, McDermott 3, Johnson 11, Valentine 11.
Allenatore: Jamion Christian. Assistenti: Francesco Taccetti, Francesco Nanni, Nick Schlitzer.
Trapani: Notae 4, Horton 11, Robinson 17, Rossato 4, Alibegovic 18, Galloway 4, Petruccelli, Yeboah 2, Mollura (k) n.e., Gentile 2, Brown 9, Eboua 1.
Allenatore: Jasmin Repesa. Assistenti: Andrea Diana, Alex Latini, Isaac Jenkins.

Arbitri: Sahin, Bartoli, Dori.

TORINO – Quando qualcuno si chiede perché, nell’estate che segna il kickoff di un nuovo ciclo, un progetto duraturo che porti la Trieste cestistica nel futuro, uno degli scout più esperti d’Europa va a scegliere come primo tassello un giocatore trentaseienne che nelle ultime stagioni aveva mestamente sventolato asciugamani in una palestra mestrina, può mettersi comodo e riguardarsi l’intero quarto di finale giocato da Jeff Brooks contro Trapani, di cui la rubata ed il buzzer beater vincente sono solo la punta dell’iceberg.
Brooks la Coppa Italia l’ha già vinta due volte, ma non è solo la sua esperienza in questo genere di partite senza un domani a renderlo a mani basse il match winner del quarto di finale contro Trapani.
Non lo sono nemmeno le fredde statistiche che riporta il tabellino a fine partita, che a ben vedere non parla di una prestazione numericamente clamorosa.
Invece, vederlo catechizzare i compagni più indisciplinati durante i time out (Denzel Valentine), vederlo dialogare in campo con i go-to men per dare loro coraggio o dare preziose indicazioni, lo rendono il leader occulto, l’allenatore in campo, un vero e proprio tesoro cestistico restituito nella parte finale della sua carriera alla pallacanestro italiana.Santificato il matador, c’è però da inchinarsi davanti al carattere di una squadra che disputa nell’attesissimo quarto di finale a Torino forse la peggior partita della stagione dal punto di vista tecnico, con percentuali da oltre l’arco che si fermano al 25%, che la vede soccombere a rimbalzo, che la vede rincorrere dopo un inizio raccapricciante in attacco e perdere pericolosamente di mano l’inerzia della partita a due minuti dalla fine.
Ma che è anche capace di mettere subito una pezza nel primo quarto all’emorragia offensiva difendendo in modo feroce e causando una marea di palle perse agli avversari, approfittando in modo cinico all’uscita prudenziale di Petrucelli quasi subito gravato di due falli e, soprattutto, di Justin Robinson vittima di un infortunio che pareva ben più grave di quanto si è fortunatamente dimostrato.
Trapani senza il suo leader difensivo e priva del suo più credibile ed imprevedibile terminale in attacco sembra dimezzata, e nonostante un ottimo Alibegovic, un Horton dominante soprattutto a rimbalzo, ed un Galloway che cresce con il passare dei minuti, subisce l’onda di ritorno di una Trieste magistralmente orchestrata da Michele Ruzzier, che sarà anche l’antitesi di Colbey Ross nel modo di interpretare il ruolo, ma nei 28 minuti passati sul parquet è un vero e proprio manuale di costruzione, organizzazione e gestione dei ritmi, in equilibrio fra sfrontatezza e razionalità.
A dire la verità, al netto dei soliti eccessi che rischiano di farne deragliare la prestazione, anche Denzel Valentine si crogiola nell’innescare i lunghi, e sceglie a ripetizione il suo compagno californiano come destinatario prioritario dei suoi confetti.
Johnson beneficia con gli interessi della crescita dell’intesa con i piccoli, e diventa di partita in partita più credibile come rollante: è di gran lunga più pericoloso in movimento che cercato spalle a canestro (movimento che richiede una quantità di tecnica di base che ancora latita), e sia Michele che Denzel lo hanno capito perfettamente, trovandolo spesso al centro di autostrade che portano direttamente al ferro.
L’alter ego nel reparto gli è complementare: la pericolosità dal perimetro di un centro che preferisce giocare lontano dal pitturato come Francesco Candussi costringono gli avversari ad allontanare i loro lunghi dall’area per cercare di andare a contrastare le conclusioni, e dal momento che Repesa rinuncia per scelta al Tibor Pleiss, il solo Horton non può certo sdoppiarsi, finendo per sfinirsi.
Valentine è il solito imprevedibile pazzo, capace di passare un pallone sulle caviglie di un compagno e, nell’azione successiva, di inventarsi una tripla da nove metri. Anche per lui vale il discorso fatto per Candussi: uno del genere -che segni o no- non lo puoi battezzare, ma raddoppiarlo o triplicarlo implica necessariamente scelte e sacrifici difensivi che alla lunga diventano decisivi.
Sono, però, anche 38 minuti di passione per Markel Brown e Jarrod Uthoff, i protagonisti biancorossi forse più attesi nella kermesse, che però litigano con la partita senza riuscire mai ad interpretarla nel modo corretto.
Salvo, poi, infilare con freddezza glaciale i tiri liberi gentilmente offerti dalle scelte suicide di Yeboah e Brown (quello trapanese) che vanno a commettere fallo ad un chilometro dal proprio canestro con la squadra in bonus, regalando così a Trieste la possibilità di limare progressivamente il gap a cronometro fermo quando tale gap pareva oggettivamente incolmabile sul -7 a poco più di due minuti dalla fine.
L’assenza di Ross costringe coach Christian a ricercare riassestamenti dei quintetti finendo per schierarne di curiosi: in particolare uno, molto alto e fisico con McDermott, Reyes, Johnson, Valentine e Uthoff in campo contemporaneamente, permette di arginare lo tsunami sotto canestro generato da Horton e Alibegovic. In attesa del rientro del play americano, comunque, ci sarà ancora moltissimo da lavorare in questo senso.
Ma, alla fine, possiamo passare il Valentine’s day a ricercare ed analizzare tutti i risvolti tecnici di una partita rocambolesca senza venire a capo di un risultato apparentemente inspiegabile.
In verità, Trieste vince su Trapani perchè si dimostra più squadra, perchè è capace di reagire collettivamente ai momenti di down senza doversi affidare per forza all’uomo solo al comando (al Justin Robinson della situazione, per intenderci), perchè non si arrende letteralmente mai, perchè l’avversario ha di fronte giocatori che barcollano, sbandano, subiscono canestri e trash talking ma rimangono in piedi, schiena dritta, muso duro, determinazione incrollabile nascosta dietro una patina di disarmante tranquillità.
Una determinazione che permette loro di andare a deviare e controllare il pallone che avrebbe dovuto regalare la vittoria ai più forti ma che due secondi dopo attraverserà la loro retina.
A sospingere il palleggio di Jeff Brooks nella cavalcata vincente è un’intera squadra, un’intera città che da decenni attende di vivere momenti come questo.
Che anche di giovedì sera a metà febbraio si sciroppa 700 chilometri per rimanere senza voce alle 11 di sera, e che fra due giorni si perderà di buon grado la finale di Sanremo perchè, di finali, ce n’è un’altra da conquistare e da giocare domenica pomeriggio.
Trento, vittoriosa non senza fatica nell’altro quarto di finale contro Reggio Emilia e presente a bordo campo per studiare i prossimi avversari, si gode ben poco la sconfitta della squadra sulla carta più pericolosa.
Si troverà infatti di fronte in semifinale una serpe velenosissima, che non sai mai se, quando e dove andrà a morderti se solo pensi di poterti permettere di abbassare la guardia o di sottovalutarla.

(diritti riservati TSportintheCity)
(Photo Credit: ufficio stampa Pallacanestro Trieste)

In collaborazione con TSportintheCity – articolo di Francesco Freni

PALLACANESTRO BRESCIA – PALLACANESTRO TRIESTE: 93-90
Pallacanestro Brescia: Bilan 20, Ferrero, Dowe 5, Della Valle 16, Burnell 22, Tonelli n.e., Ivanovic 8, Mobio 3, Rivers 12, Cournooh 7, Pollini n.e.
Allenatore: P. Poeta. Assistenti: M. Cotelli, G. Alberti, D. Moss.
Pallacanestro Trieste: Obljubech n.e., Reyes 9, Deangeli (k), Uthoff 12, Ruzzier 12, Campogrande n.e., Candussi 14, Brown 20, Brooks 6, McDermott, Johnson 4, Valentine 13.
Allenatore: J. Christian. Assistenti: F. Taccetti, F. Nanni, N. Schlitzer.

Arbitri: Gonella, Noce, Lucotti.

BRESCIA – Partita tecnicamente impeccabile? Assolutamente no. Errori, difese (soprattutto quella triestina in avvio di partita) in affanno, ingenuità da una parte e dall’altra, qualche palla persa di troppo.
Ma, anche, tantissima intensità, fiammate e controfiammate, i go-to men che fanno, per l’appunto, i go-to men sui due lati del campo, thrilling fino alla sirena finale con il risultato sempre in bilico.
Ed anche tanto, tantissimo pathos, con nessuna delle due squadre disposta ad arrendersi, ad arretrare di un passo, una ventina di giocatori ad affrontarsi a muso duro senza mai eccedere nell’agonismo e nella cattiveria, ma costantemente determinati a non arretrare di un centimetro.
Due squadre che esprimono una filosofia di pallacanestro opposta fra loro, una sorta di “guerra dei mondi”: più tradizionale e prevedibile, ma con un tasso di efficacia ineguagliabile quella bresciana, basata sul semplice gioco alto-basso, palla a Bilan e dieci secondi di palleggi che si concludono alternativamente con il pallone in fondo alla retina dopo essere stato rilasciato a venti centimetri di distanza, oppure con il passaggio a una mano sul perimetro verso il compagno lasciato libero da una difesa che inevitabilmente collassa nel pitturato attorno al totem croato oppure con l’assist preferibilmente ad un Jason Burnell che accorre dal lato debole a beneficiare dell’effetto calamita esercitato dal maturo centro bresciano sull’intera retroguardia avversaria.
Meno prevedibile e più arrembante la filosofia triestina, giocata a 150 all’ora, con tantissime transizioni, la ricerca della conclusione entro i primi dieci secondi di ogni azione, lo sbilanciamento verso le conclusioni da oltre l’arco: certamente meno affidabile ma più moderna, meno prevedibile e, quando funziona, più spettacolare. Ma anche, quando non funziona alla perfezione, incapace di rivelarsi vincente.I sospiri platealmente esibiti da Peppe Poeta pochi secondi dopo che il buzzer beater mancato da Sean McDermott aveva graziato la sua squadra, potenzialmente tradita pochi secondi prima da uno dei pochissimi errori dalla lunetta di un altrimenti infallibile Amedeo Della Valle, riassumono il sollievo provato dalla Leonessa per aver portato a casa una partita iniziata in discesa grazie ad una intensità difensiva biancorossa non pervenuta, ma divenuta complicatissima grazie alla clamorosa reazione degli uomini di Jamion Christian, capaci come sempre di distribuire responsabilità ed ammortizzare l’assenza di Colbey Ross redistribuendo le sue qualità fra la razionalità e l’organizzazione offensiva di Michele Ruzzier e l’imprevedibile creatività di Denzel Valentine (in perfetta ottica “next man up”).
Come spesso successo in situazioni simili, però, Trieste si perde proprio sul più bello, proprio quando era sul punto di conquistare definitivamente l’inerzia dell’incontro, anche se c’è da dare il giusto merito ad una Germani che trova due triple dal peso specifico incalcolabile proprio quando gli attributi di Ivanovic e Della Valle rimanevano le ultime risorse a disposizione di un Peppe Poeta che fino a un minuto e mezzo dalla fine assisteva alla resistenza di Trieste come a quella di un pugile sfinito sotto i colpi dell’avversario che rimane spavaldamente in piedi e restituire jab a jab, gancio a gancio, diretto a diretto, senza mai dare nemmeno l’impressione di poter finire al tappeto.
E’ anche, però, una partita largamente imperfetta quella che Trieste gioca al Palaleonessa, molto al di là degli episodi che in ultima analisi fissano il punteggio finale ed indirizzano i due punti in classifica.
Innanzitutto la difesa raccapricciante nel primo quarto, specie nel pitturato, non può certo essere giustificata dalla ricerca di soluzioni alternative all’assenza di Ross. Né Johnson né Candussi, e nemmeno Uthoff riescono a venire per 10 lunghissimi minuti a capo delle scorribande di Miro Bilan sotto canestro, e dire che il gioco del 36enne croato e la predisposizione della sua squadra a cercarlo con insistenza parossistica spalle a canestro o (più raramente) come terminale dei pick and roll, fosse il segreto peggio custodito della storia.
Bilan per dieci minuti sembra il classico Under 15 cresciuto troppo in fretta, che dall’alto dei suoi due metri si prende gioco degli avversari normodotati nelle partite giovanili tirando in testa a tutti sfruttando il suo incolmabile vantaggio fisico.
Talvolta la difesa addirittura si apre come il Mar Rosso al comando di Mosè, facendo illudere il croato così come i 5000 che affollano il palazzetto lombardo che quella contro Trieste -che non tracolla esclusivamente in quanto sostenuta dalla caterva di rimbalzi offensivi catturati che si trasformano in seconde e terze chances- si sarebbe potuta ben presto trasformare in una passeggiata.
Finalmente, però, il coaching team triestino riesce a reagire in corsa alla situazione, e mette una pezza all’imbarazzante emorragia grazie all’esperienza di Jeff Brooks, davvero l’unico biancorosso capace di trovare contromisure adeguate: fisico e gomiti, posizione e tempismo, intimidazione e agonismo sono le armi con le quali l’ex Reyer mette fine al dominio incontrastato del croato, e con esso di gran parte della eccessiva facilità offensiva bresciana, sintetizzata in percentuali al tiro irreali e vicine al 90% sia da due che da tre punti.
Regolata la difesa e rallentata la produzione offensiva dei padroni di casa, la contesa si trasforma in una partita di scacchi, sporca e talvolta confusionaria, che a tratti vive di velocissimi ribaltamenti di campo quasi mai produttivi, alternati a momenti di pallacanestro spettacolare, organizzata ed emozionante.
Trieste è sorretta nel secondo tempo dal tiro da tre, Brescia non snatura il suo gioco anni ’80, ne esce una contesa risolta, alla fine, da due triple di Ivanovic (lasciato colpevolmente libero di ricevere palla nell’angolo) e Della Valle, dall’errore finale di McDermott che dal -3 avrebbe potuto portare la contesa all’overtime, intervallate dalla bomba di Ruzzier e dall’ingenuità di Uthoff che, nel tentativo di far rimbalzare il pallone sulla gambe di Bilan (sempre lui…) per ottenere la rimessa laterale, finisce per regalargli un pallone che finirà nelle mani di Burnell ad un metro dal ferro.
Episodi conditi da decisioni (o non decisioni, in qualche caso) del trio in grigio che, ben lungi dal rivelarsi decisive finiscono nel complesso per tutelare eccessivamente alcuni giocatori ben individuati -per usare il linguaggio della burocrazia LBA- punendone pignolamente altri.
Ma di arbitraggio e di quanto le decisioni arbitrali nell’arco di un campionato tendano ad equilibrare vantaggi e svantaggi sono ormai pieni blog e quotidiani, inutile soffermarcisi troppo: fa parte del gioco.
Poche le sorprese dal campo rispetto a quanto ci si potesse aspettare da ognuno dei biancorossi scesi in campo: spaesato McDermott, apparso avulso dalle meccaniche della squadra sui due lati del campo.
Intimidito Johnson, come sempre successo quando opposto a giocatori sulla carta dominanti: i suoi limiti risiedono soprattutto nella sua testa, quando si convincerà che con quel fisico e quel tempismo a rimbalzo può essere dominante anche lui, riporrà il braccino che lo induce a sbagliare conclusioni da un centimetro e diverrà quel giocatore prepotente nel pitturato di cui la squadra ha un bisogno essenziale, specie se vuole guardare in alto verso le squadre che tale dominio lo hanno connaturato al roster.
Mentalità già matura, invece, in un Francesco Candussi pericoloso da ogni punto del campo, anche lui brutalizzato da Bilan nel primo quarto (e nel resto della partita) ma sfrontato e coraggioso quando si tratta di prendersi responsabilità in attacco. Potendo unire in un singolo giocatore la sua faccia tosta e la sua tecnica alle qualità fisiche del compagno californiano, Trieste si ritroverebbe in squadra uno dei centri migliori d’Europa.
Ruzzier e Valentine, come detto, sintetizzano in due le qualità latenti del play titolare assente, anche se sarebbe necessaria maggiore intraprendenza offensiva da parte del neo trentaduenne triestino, che quando chiamato in causa dimostra di possedere qualità balistiche e personalità sufficienti per sopperire anche alla produzione offensiva (punti) mancanti.
I due piazzano complessivamente 15 dei 19 assist complessivi attribuiti alla squadra (7 per Valentine, 8 per Ruzzier), segno della loro dedizione alla costruzione del gioco ed alla ricerca della soluzione a più alta percentuale di realizzazione.
Markel Brown gioca a fiammate, inizia con le polveri bagnate, poi aggiusta la mira e permette a Trieste di mettere un paio di volte il naso avanti nel terzo e quarto quarto. Nel finale, quando tenta di attaccare il ferro, subisce un evidente quanto ignorato contatto che ne spegne definitivamente la verve nella metà campo offensiva e, con essa, le possibilità di riagguantare Brescia. Sbaglia anche due pesantissimi tiri liberi nei momenti decisivi, ma è pur sempre il miglior tiratore biancorosso dalla linea della carità, e comunque fin lì aveva fatto percorso netto: peccato costoso ma veniale.
Un po’ sottotono, invece, Jarrod Uthoff, forse alla sua peggiore esibizione in stagione: altre volte gli era capitato di iniziare la partita con la mira sghemba, affrancandosi però dall’insufficienza grazie alla dedizione difensiva ed ai colpi letali inferti all’avversaria quando più conta.
La partita, stavolta, non viene a lui nemmeno nel finale, che lo vede anzi per la prima volta costantemente in ritardo in difesa ed impreciso da ogni spot in attacco. Sulla falsariga delle ultime due uscite, infine, un Justin Reyes impiegato solo 13 minuti nei quali riesce però ad esibirsi nel solito campionario di palle rubate, conclusioni acrobatiche fuori equilibrio, attacchi prepotenti al ferro, una difesa che si fa più credibile di partita in partita: il suo problema -e quello del coach- rimane la tenuta fisica che gli consenta un maggiore minutaggio, specie con un McDermott ancora da inserire.
Ora la squadra deve velocemente chiudere il capitolo bresciano, ed entrare in modalità “win or go home”, mentalità con la quale questa formazione deve ancora misurarsi per la prima volta.
C’è da dire che un giocatore fondamentale come Markel Brown solo un anno fa in tale modalità ci è entrato in modo clamoroso trascinando Napoli fino in fondo alla competizione, ma il resto della squadra deve ancora misurarsi con la necessità di non farsi schiacciare dall’ansia da prestazione e dall’importanza dell’obiettivo, di giocare con leggerezza mantenendo però determinazione e cattiveria agonistica.
Del resto è la modalità che Trieste dovrà accendere una volta conquistati i play off, e dunque tanto vale adeguarsi da subito.
Giovedì, peraltro, si inaugura un ciclo di quattro partite che inizia e finisce con una sfida contro Trapani lontano dal PalaTrieste: quarto di finale di Coppa Italia a Torino, poi la sosta di campionato quantomai gradita per recuperare Ross e portare in pari McDermott, la doppia sfida casalinga di inizio marzo con Treviso e Scafati ed, appunto, la trasferta a Trapani.
Una Trapani che sorprende tutti dimostrando, alla fine, la sua vulnerabilità andando a perdere clamorosamente sul campo dell’ultima in classifica.
Si, Può, Fare!

(diritti riservati TSportintheCity)
Crediti: foto Panda Images

In collaborazione con TSportintheCity – articolo di Francesco Freni

PALLACANESTRO TRIESTE – BERTRAM DERTHONA TORTONA: 86-72
Pallacanestro Trieste: Obljubech n.e., Ross 24, Reyes 12, Deangeli (k), Uthoff 10, Ruzzier 5, Campogrande n.e., Candussi, Brown 7, Brooks 2, Johnson 9, Valentine 17.
Allenatore: J. Christian. Assistenti: F. Taccetti, F. Nanni, N. Schlitzer.
Bertram Derthona Tortona: Zerini n.e., Vital 9, Kuhse 5, Gorham 14, Candi 2, Denegri 6, Strautins 12, Baldasso 5, Kamagate 4, Biligha 4, Severini (k) 3, Weems 8.
Allenatore: Walter De Raffaele. Assistenti: G. Bassi, I. Squarcina, E. Rabbolini.

TRIESTE – Diciotto partite disputate, appena due con il roster al completo, una sola con Justin Reyes tornato ad assomigliare al giocatore che sette mesi fa aveva trascinato la squadra riportandola alla ribalta nazionale che merita.
Con Tortona, nella partita forse più importante fra quelle fin qui disputate, contro una squadra lunghissima e talentuosa, non per niente fra le top 16 in BCL, Trieste finalmente somiglia da vicino al meccanismo immaginato e realizzato durante l’estate scorsa da Mike Arcieri e Jamion Christian.
Perchè va bene dimostrare resilienza, va bene reagire alle avversità ed agli infortuni a ripetizione che le hanno costantemente impedito di giocare la pallacanestro più congeniale, va bene trovare sempre risorse supplementari e soluzioni tecniche in corsa, va bene dimostrare carattere ed affidarsi ai solisti.
Ma il meccanismo pensato e cesellato con attenzione certosina dalle mani di un artigiano dello scouting come Mike Arcieri mostra finalmente la sua disarmante precisione nel momento esatto in cui recupera anche l’ultimo, indispensabile tassello, un ingranaggio portoricano tornato a dimostrare la sua efficacia ben oltre le nude statistiche.L’ovazione che ne ha accompagnato l’ultima uscita dal campo è il riconoscimento non della liberazione dal fardello dell’infortunio “sulla fiducia” come avvenuto un paio di settimane fa, bensì di una prestazione solida, fatta di rimbalzi e difesa, spintoni e gomitate, salti e scatti, intensità e determinazione.
Una prestazione che arriva proprio il giorno dopo l’annuncio della firma di Sean McDermott, firma che necessariamente implicherà scelte domenicali ma che in una stagione così lunga e costellata di difficoltà ed assenze non fa che dare ulteriore profondità ad un roster che ora può realmente cullare realistiche ambizioni. “Noi abbiamo sempre detto che vogliamo giocare a maggio e giugno, allungare la squadra è una decisione naturale che va in quella direzione” afferma Mike Arcieri in sala stampa al termine della partita.
Conoscendolo, non è solo una boutade o un grido di battaglia: questa squadra, in tutte le sue componenti, ci crede veramente.
Intendiamoci, Trieste ora è sì un orologio svizzero, che però va ancora tarato perchè qualche volta mostra qualche secondo di ritardo, qualche volta va ancora fuori giri.
Contro Tortona, però, le solite fiammate alternate a momenti di amnesia specialmente difensiva, le striscie da oltre l’arco seguite da lunghi periodi di confusione offensiva e tante palle perse, vengono “appiattite” da un rendimento molto più costante nei quaranta minuti, fatto di coerenza nelle scelte in attacco e di costante attenzione nel cercare di limitare i punti di forza avversari specialmente nel pitturato, dove Kamagate e Biligha, potenzialmente, avrebbero potuto fare la differenza.
Naturalmente la costanza di rendimento è prima di tutto diretta conseguenza della profondità delle rotazioni, con giocatori molto meno spremuti in ruoli non loro e dunque molto più lucidi nello svolgere meno compiti con molta più semplicità.
E poi, quando di fronte hai una squadra come Tortona che arriva in via Flavia reduce dalla trasferta a Würzburg e dalle battaglie all’ultimo sangue in campionato con Brescia e Reggio Emilia, fisicamente sulle gambe e mentalmente scarica, per Trieste diventa più semplice sviluppare la pallacanestro che più ama, quella giocata con grande velocità, quella che partorisce le conclusioni nei primi sette-otto secondi di azione, con tantissime transizioni che nascono da rimbalzi e palle recuperate e che permettono conclusioni ad altissima percentuale di realizzazione.
Quando riesce a farlo, la squadra di Jamion Christian riesce a tramortire ogni avversario, prendendosi vantaggi nel punteggio che poi, specialmente al PalaTrieste, diventano impossibili da ricucire se non con l’aiuto delle (sempre meno consuete) controfiammate biancorosse.
E, soprattutto, tende a divertirsi e divertire il pubblico, con buona pace dei cultori del tradizionale gioco alto basso con il pivot-totem che a culate arriva a distanza di gancetto.
Questa squadra piace, piace tantissimo a tutti -a Trieste come altrove, al netto dei tradizionali campanilismi- proprio perchè dà sempre l’impressione di divertirsi. Al di là delle prestazioni dei singoli, al di là dei tabellini, al di là delle alchimie tattiche, l’intero gruppo trasmette serenità e leggerezza, coesione e consapevolezza, motivazione ed intensità, ma anche atteggiamenti sornioni e scanzonati, inconsapevolmente ruffiani e capaci di accattivarsi l’entusiasmo dei 5700 costantemente abbarbicati sugli scaloni del PalaTrieste.
Brooks, dopo l’esperienza in laguna, sembra una belva liberata dalla gabbia, aizza le ovazioni, guida i cori. Oddio, dà pure enorme sostanza alla sua prestazione, proprio quando, dopo il canestro da sdraiato realizzato a Milano, sembrava aver già mostrato tutto il suo repertorio: contro Tortona difende, stoppa, recupera palloni, prende rimbalzi, fa l’allenatore in campo.
Piace anche la nuova versione di Denzel Valentine, da qualche partita diventato “saggio” (per quanto la sua imprevedibile pazzia cestistica residua gli permetta di esserlo). Il chitarrista barbuto -oggettivamente più avvezzo all’autotune che agli assoli di chitarra- si è tramutato in un uomo squadra, dispensatore di assist alternati a penetrazioni tecnicamente inarginabili dalla quasi totalità dei difensori in LBA.
Si affida a conclusioni da tre da otto metri nel suo stile solo quando viene messo in ritmo o quando fiuta che l’inerzia della partita lo richieda: potrà anche sbagliarli, ma sono tiri quasi sempre ben presi.
Quando poi aggiungi un Colbey Ross da 35 di valutazione, letteralmente imprendibile nell’ultimo quarto quando abbatte moralmente una Tortona protesa allo sforzo supremo per cercare di rientrare, ribattendo colpo su colpo, tripla su tripla, penetrazione su penetrazione, palla recuperata su palla recuperata, la bandiera bianca da parte della squadra piemontese viene sventolata a qualcosa come tre-quattro minuti dalla fine.
Del resto, con Strautins uscito a braccia dopo un infortunio al ginocchio che purtroppo sembra piuttosto grave, e Gorham uscito per 5 falli, privata dei due uomini più convinti più che efficaci, la luce per gli ospiti non può che spegnersi inesorabilmente.
Nei minuti nei quali Ross rifiata per prepararsi ai minuti decisivi, Michele Ruzzier non lo fa certo rimpiangere, con uno stile di impostazione delle azioni sostanzialmente diverso dal play americano ma in grado di fare girare la squadra con i giri perfetti dimostrando grande capacità di leggere il momentum della partita. Deve convincersi di poter essere anche un grande attaccante, partendo in questo dalla perfetta esecuzioni delle due uniche azioni nelle quali ha tentato una conclusione, un tiro da tre ed una penetrazione battendo nell’uno contro uno il diretto avversario arrivando al sottomano alzato per evitare la stoppata.
Sotto canestro, come previsto, Kamagate riesce ad intimidire un Jayce Johnson che viene limitato dal lungo francese più nella testa che nel rendimento.
Quando riceve palla vicino al ferro il centro californiano cerca conclusioni sghembe e tecnicamente inguardabili, sbagliando tiri banali per un 2,14 come lui più per il timore di venire brutalizzato che per reale difetto tecnico.
Con il passare dei minuti, e con Kamagate fatto sedere a lungo in panchina da De Raffaele che ne valuta insufficiente il rendimento, Johnson diventa più convinto ed autoritario, trova qualche conclusione da sotto, è abbastanza preciso dalla linea dei tiri liberi e, soprattutto, domina a rimbalzo, catturando ben 11 palloni sotto il tabellone.
Con il solo Biligha in campo da arginare nel pitturato, in effetti, Jamion Christian può anche permettersi il lusso di finire la partita senza centri, schierando un quintetto piccolo e velocissimo.
Il rientro di Jarrod Uthoff fa comprendere quanto Ice Man sia mancato nella partita di Milano in tantissimi piccoli particolari che, sommati, lo rendono pressoché indispensabile. Molto al di là del bottino di punti, ben oltre la pericolosità da oltre l’arco, l’uomo di Iowa fa sempre la cosa giusta al momento giusto: interrompe l’inerzia della squadra avversaria stoppando l’uomo migliore (Strautins) lanciato verso la schiacciata.
Difende uscendo sull’arco per impedire il tiro da tre dei piccoli così come è credibile quando si trova fisicamente in difficoltà nei mismatch sotto canestro. Recupera palloni, prende rimbalzi, devia palloni quel tanto che basta per impedire una ricezione ed un rilascio facili ai tiratori.
Un giocatore totale che già da ora sarebbe necessario fare di tutto per cercare di trattenere a lungo sotto San Giusto, dal momento che le sirene europee (quelle dell’Europa che conta) probabilmente stanno già suonando un bel concerto intorno al suo agente.
Ed infine il solito, concreto, Markel Brown, che trascorre una serata in pantofole, finalmente sotto i 30 minuti di impiego, evento per lui più unico che raro in una stagione nella quale ha dovuto fare spesso gli straordinari. Una prestazione, la sua, apparentemente silente ma che non va valutata secondo quanto espresso da un tabellino finale non particolarmente esaltante: la costanza nell’applicazione in difesa su Vital, Khuse, Weems e Strautins, alla lunga, ne abbatte certezze e rendimento.
Si fa presto a dire “magari averne sempre di questi problemi” quando si pensa al momento della decisione su chi escludere domenica prossima per lasciar spazio all’esordio di McDermott.
Interrompere il percorso di crescita di Reyes quando inizia a dare frutti concreti appare una scelta difficile, così come evitare il rischio di malumori richiederà tutta l’abilità di comunicatore e motivatore universalmente riconosciute a Jamion Christian.
Mike Arcieri assicura che è un rischio molto ben calcolato e che la decisione di firmare un giocatore in più non sarebbe stata presa nel caso in cui ci fosse stato il minimo dubbio di poter spaccare lo spogliatoio.
Uno spogliatoio che, invece, viene descritto come più unito e motivato che mai, alla vigilia della trasferta sul campo della capolista e dell’attesissimo quarto di finale contro Trapani, una sfida fra “neopromosse” dall’esito niente affatto scontato.
In classifica anche Tortona soccombe nel doppio confronto con Trieste, e si trova anche due punti più sotto.
Reggio Emilia, invece, strapazza Cremona in casa nell’altro anticipo e affianca ora i biancorossi e Milano a 22 punti, in attesa del derby lombardo più sentito, quello contro una Varese ben decisa a risollevarsi dopo la scoppola da -41 subita in casa domenica scorsa.
Trieste sarà spettatrice molto interessata anche della sfida di Bologna fra Virtus e Reyer: in caso di vittoria della squadra di casa, il nono posto si allontanerebbe a 6 punti di distanza.
Tutta da seguire, infine, la sfida al vertice fra Trento e Trapani: chi perde rimarrà solo quattro punti più sopra alla squadra triestina.

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Ph. Antonio Barzelogna

In collaborazione con TSportintheCity – articolo di Francesco Freni

OLIMPIA MILANO – PALLACANESTRO TRIESTE: 87-74
Olimpia Milano: Mannion 6, Dimitrijevic, Bortolani n.e., Tonut 12, Bolmaro 7, Brooks 11, LeDay 12, Ricci (k), Flaccadori, Caruso 10, Shields 17, Gillespie 12.
Allenatore: E. Messina. Assistenti: M. Tomic, M. Fioretti, A. Serravalli.
Pallacanestro Trieste: Obljubech n.e., Ross 12, Reyes 4, Deangeli (k) 2, Ruzzier 3, Campogrande n.e., Candussi 5, Brown 17, Brooks 8, Johnson 9, Valentine 14.
Allenatore: J. Christian. Assistenti: F. Taccetti, F. Nanni, N. Schlitzer.

Arbitri: Baldini, Valzani, Bongiorni.

MILANO – Trieste, alla fine, viene abbattuta dai reietti di Ettore Messina, coloro che in stagione non avevano mai trovato spazio e gloria finendo ai margini delle rotazioni e della panchina.
L’assenza dell’ultimo minuto di Jarrod Uthoff, affetto da qualche forma di attacco influenzale, non deve essere presa ad unico pretesto per raccontare una sconfitta contro una squadra che, di assenze, ne lamentava a sua volta numerose e pesantissime.
E comunque la storia delle ultime due stagioni insegna che il club triestino non intenda sacrificare il benessere e l’integrità fisica dei suoi giocatori in funzione della singola partita o di equilibri di classifica parziali di brevissimo periodo, per cui recriminare sul mancato impiego dell’Ice Man di Iowa non avrebbe alcun senso. Anche perché in passato la squadra biancorossa ha dimostrato grande resilienza in ogni situazione, anche la più disperata e su campi altrettanto difficili, come peraltro successo anche all’Unipol Forum di Assago per i trenta minuti nei quali ha giocato alla pari con un’AX che le ha tentate tutte, ha difeso alla morte, ha eseguito diligentemente i giochi in attacco sfruttando i suoi punti di forza, affidandosi agli assi (Shields e LeDay su tutti) quando necessario e ad una difesa di squadra pressoché perfetta quando si trattava di controllare ed amministrare il piccolo vantaggio accumulato.
Trieste, alla fine, perde contro una squadra che si dimostra più lunga, dotata di soluzioni infinite e di grandissima qualità, che reagisce al momento agghiacciante (soprattutto in Europa) che sta attraversando rimanendo sempre concentrata ed equilibrata, accettando gli squilibri lì dove non poteva compensarli (sotto canestro) ma capitalizzando con interessi usurai la lunghezza delle rotazioni e la qualità cristallina dei singoli soprattutto nell’ultimo quarto.I biancorossi giuliani, che schierano Jeff Brooks a tappare la falla difensiva creata dall’assenza di Uthoff, sono bravi nell’attuare diligentemente il piano partita, tenendo sempre altissimi i ritmi dell’incontro, cercando la conclusione costantemente nei primi dieci secondi di azione, anche perché, finita la fase di transizione, la difesa schierata milanese è troppo fisica ed aggressiva per essere battuta nell’uno contro uno o nei giochi a due fra esterni e lunghi.
Trieste, però, pur subendo qualcosa a sprazzi da Gillespie, è nettamente superiore nel pitturato e sotto canestro, cattura una caterva di rimbalzi sui due lati del campo, mette in ritmo Jayce Johnson che dispone a piacimento, pur con tecnica non esattamente elegante, dei surrogati di centro che rimangono a disposizione di Ettore Messina.
La percentuale da 2 di Trieste, a fine primo tempo, raccontava con un 75% irreale la facilità nell’attaccare direttamente il ferro senza che Milano opponesse adeguate contromisure.
Si sa, però, come la squadra di Jamion Christian sia, per scelta, enormemente sbilanciata sul perimetro, e non ha la pazienza nell’innescare i lunghi nel suo DNA: il coach americano di Trieste si affida a quintetti piccoli agili e sguscianti, e per larghi tratti ha anche ragione.
La sua squadra riesce senza scomporsi a reagire ad ogni singolo (timido) tentativo di fuga dei campioni di casa, piazzando anche un illusorio quanto fugace vantaggio in doppia cifra nel secondo quarto, territorio incontrastato di un inarrestabile Markel Brown.
Shavon Shields ed un acciaccato ma stoico Zach LeDay fiutano il momento difficile e ricuciono in un amen il gap, riportando il perfetto equilibrio a metà partita.
Il terzo quarto è il paradigma del basket odiato dai puristi tradizionalisti, quelli che appoggerebbero una petizione per abolire il tiro da tre: bomba e controbomba, tiro da tre sbagliato contro tiro da tre sbagliato sull’altro lato, il tutto giocato a cento all’ora con l’evitabile contorno di nefandezze inguardabili sui due lati del campo.
Ross (per il resto autore di una prova insufficiente per superficialità ed imprecisione) Brown, Candussi e Valentine non mollano di un metro la presa, e tengono la loro squadra appesa ad una partita la cui inerzia prende inesorabilmente una direzione precisa quando Messina, una buona volta, decide di poter concedere minuti alla sua second unit.
In apertura di ultimo quarto proprio loro danno la spallata decisiva, accumulando quel gap che una Trieste stremata quanto disorganizzata in attacco non sarà più in grado di ricucire, specie quando la luce da oltre l’arco, pur con tiri presi in modo decente, si spegne inesorabilmente e definitivamente.
Solo 6 i punti segnati dalla squadra triestina negli ultimi dieci minuti, fra cui un canestro di Brooks da sdraiato tanto fortunoso quanto incredibile.
Per il resto, spadellate sempre più disperate da otto metri, palle perse a ripetizione ed una difesa gabbata dai cambi difensivi che mettono Caruso in condizione di andare addirittura in doppia cifra.
Non che Milano negli ultimi dieci minuti sia in grado di elevare il tasso spettacolare (15-6 è un parziale da UISP di basso livello), ma il compito degli uomini di Messina era fondamentalmente quello di tornare a vincere e riportare il sereno, a costo di concedere pochissimo all’estetica (i sorrisi al termine dell’incontro raccontavano di una tensione sciolta e di una preoccupazione scacciata non tipica di una squadra di Eurolega che affronta una neopromossa a casa sua).
Trieste può recriminare sulle 19 palle perse e sulla incapacità di capitalizzare il patrimonio offerto dal dominio a rimbalzo: 35 a 26 il computo totale, con addirittura 14 rimbalzi offensivi catturati dai biancorossi che però raramente riescono a sfruttare le seconde e talvolta le terze chances.
Può anche riportarsi a casa la consapevolezza di un Justin Reyes che migliora la sua condizione fisica di partita in partita, risultando visivamente più reattivo, più pronto, più sicuro nei movimenti, molto meno frenato dal timore di farsi nuovamente, e definitivamente, male: riaverlo almeno ai livelli dei playoff della passata stagione costituirebbe l’operazione di “mercato” più redditizia in assoluto.
I risultati dagli altri campi “sterilizzano” questa sconfitta, che tutto sommato rimane abbastanza indolore.
Ovviamente Milano si stacca due punti più sopra (con la differenza canestri a favore), Reggio Emilia raggiunge Trieste dopo aver battuto Tortona a domicilio ricreando un terzetto che probabilmente si contenderà un posto nella griglia playoff fino all’ultima giornata.
In compenso, perdono sia Treviso che Venezia, tenendo il nono posto a distanza di sicurezza.
Il terzetto di testa composto da Brescia, Trapani e Trento aumenta a sei i punti di vantaggio sui biancorossi, rispetto a loro rimane indietro solo Bologna, sconfitta a Sassari.
Si fa drammatica ed avvincente, invece, la lotta salvezza, con ben quattro squadre affiancate a otto punti in fondo alla classifica, in una bagarre che si protrarrà fino a fine campionato.
In definitiva, per Trieste è una trasferta ed una sconfitta fuori trend stagionale da metabolizzare e dimenticare in fretta, anche perché sabato prossimo è già tempo di affrontare con la necessaria preparazione un match casalingo che profuma già di spareggio playoff: in via Flavia arriverà infatti Tortona, affiancata in classifica ai biancorossi, già sconfitta all’andata.
Poi, in rapida sequenza, arriveranno la trasferta sul campo della capolista Brescia ed il tuffo carpiato nel quarto di finale di Coppa Italia contro Trapani.
Riavere la squadra al completo ed in salute, senza doversi nuovamente affidare alla resilienza, diventa da qui in poi indispensabile.

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In collaborazione con TSportintheCity – articolo di Francesco Freni

PALLACANESTRO REGGIANA – PALLACANESTRO TRIESTE: 81-96
Pallacanestro Reggiana: Barford 9, Gallo n.e., Winston 22, Faye 13, Smith 7, Uglietti 7, Fainke n.e., Vitali 3, Faried 3, Grant 3, Chillo 6, Cheatham 8.
Allenatore: D. Priftis. Assistenti: F. Fucà, G. Di Paolo.
Pallacanestro Trieste: Obljubech n.e., Ross 16, Reyes, Deangeli (k), Uthoff 18, Ruzzier, Campogrande n.e., Candussi 10, Brown 22, Brooks 5, Johnson 11, Valentine 14.    Allenatore: J. Christian. Assistenti: F. Taccetti, F. Nanni, N. Schlitzer.
Arbitri: Lo Guzzo, Bettini, Noce.

REGGIO EMILIA – Alla fine, le parole di presentazione del match pronunciate in settimana da Jamion Christian, usualmente da interpretare come l’oracolo di Delfi, si svelano al quarantesimo di una partita che Trieste domina sotto tutti gli aspetti: quella sul parquet del PalaBigi, secondo la sua previsione, sarebbe infatti stata per i biancorossi una occasione da cogliere, da affrontare con la squadra finalmente, per la prima volta, al completo.
Particolare, quest’ultimo, che fino alla palla a due pareva una utopia irrealizzabile, con Michele Ruzzier privo di allenamento in settimana con una caviglia malconcia e con le condizioni di Colbey Ross e Justin Reyes custodite in cassetta di sicurezza come la cartella clinica di Donald Trump.
Ed invece, Trieste si presenta sul parquet emiliano in palla e baldanzosa, preparata come pochissime volte accaduto in precedenza e, finalmente, con la possibilità di distribuire minuti e responsabilità in modo equanime senza la necessità di spremere nessun giocatore minandone lucidità e tenuta atletica nei minuti decisivi.
E, soprattutto, con la leggerezza di non doversi affidare necessariamente ed esclusivamente ai suoi go-to man designati, coloro che spesso in stagione erano riusciti a fare di necessità virtù rivelandosi match winner grazie alla loro classe debordante, ma che alla fine cominciavano a diventare prevedibili e, dunque, facilmente arginabili dalle difese avversarie.
E’ per questo che la partita di Reggio Emilia poteva effettivamente essere considerata un’occasione: quella di godere del lusso di un’intera settimana di allenamenti utili per studiare l’avversario, sviscerare le (poche) falle della miglior difesa della Serie A, magari preparando soluzioni difensive che potessero ribaltare una possibile superiorità strategica emiliana nel pitturato.
Di fronte, una squadra che di giorni (ed energie psico-fisiche) da dedicare al percorso di avvicinamento all’anticipo di campionato, seppur importantissimo contro una avversaria diretta in classifica, ne ha avuti appena due, dovendo oltretutto smaltire tossine e conseguenze fisiche della pur vittoriosa battaglia contro Bonn, che tolgono dai giochi fin dall’inizio il centro francese Stephane Gombauld, tenuto a riposo da coach Priftis.
L’occasione a cui si riferiva l’oracolo, che tanto aveva acceso la fantasia nei giorni scorsi, era dunque proprio quella di poter approfittare di una situazione che gli consente finalmente di ruotare almeno 10 giocatori, disponendo in modo cinico della condizione fisica approssimativa degli avversari anche per ottenere il doppio premio dei due punti di vantaggio in classifica e del ribaltamento della differenza canestri, particolare quest’ultimo che proprio con queste due squadre protagoniste evoca sinistri ricordi.Trieste ha fatto diligentemente i compiti, e si vede perfettamente già dalla prima palla a due.
L’assenza di Gombould facilita il compito assieme al curioso quintetto iniziale schierato da Reggio Emilia con Chillo e Sasha Grant contemporaneamente in campo, ma gli uomini di Jamion Christian ci mettono abbondantemente del loro: sorprendono gli emiliani blindando in modo impenetrabile il pitturato, proprio lì dove si poteva temere maggiore sofferenza, sebbene Faye, Cheatam e Faried sembrino tutti possedere caratteristiche tecniche e fisiche perfette per mandare in confusione Jayce Johnson e Francesco Candussi.
Ed invece, non accade mai nulla di tutto ciò: Reggio Emilia non riesce mai a servire i propri uomini sotto canestro, limitandosi a sterili attacchi affidati alle estemporanee quanto improduttive iniziative personali delle sue guardie americane dal perimetro, consentendo a Trieste di correre, correre come ama fare e come sapeva di dover fare per poter colpire Reggio Emilia utilizzando il gioco meno amato dagli uomini di Priftis.
Ed infatti, fin da subito, la squadra giuliana approfitta della staticità offensiva avversaria concludendo in contropiede o in transizione secondaria sempre nei primi dieci secondi di azione, beneficiando di una prestazione da parte di Jarrod Uthoff che, se non avesse avuto così tanti spettatori dal vivo, parrebbe piuttosto quella di un giocatore da Playstation in modalità arcade: dieci minuti di onnipotenza inarrestabile, di intelligenza cestistica coniugata a tecnica, fluidità e naturalezza nei movimenti che frutta uno 0-10 già decisivo a 38 minuti dalla sirena finale.
Da quel momento, infatti, il vantaggio biancorosso non scenderà mai più sotto la doppia cifra. Ice Man ne mette 18 in dieci minuti, con una percentuale immacolata al tiro, bottino realizzato battendo avversari in tre ruoli diversi.
Evidentemente, a giudicare anche dalla sua prestazione nella partita d’andata, quella emiliana è per l’uomo di Iowa una specie di eccitante.
Con il passare dei minuti e l’infruttuosità di ogni tentativo di rientrare, neutralizzato alternativamente da ottime difese o da reazioni in attacco uguali e contrarie da parte di Trieste, la squadra di casa perde progressivamente fiducia ed energia.
I tre quarti che seguono, pur facendo registrare un sostanziale pareggio, sono inesorabilmente segnati dalla tramortente zampata iniziale, e rimandano agli ultimi due minuti il pathos per l’unico particolare che rimane ancora in bilico, la differenza canestri.
Trieste, peraltro, messo a sedere Uthoff per preservarne la situazione falli, affida a rotazione ad altri protagonisti nel corso dei 30 minuti rimanenti il compito di tenere gli avversari in un angolo: nel terzo quarto, ad esempio, Markel Brown, dopo qualche partita di rodaggio conseguente al lungo stop di dicembre, torna a fare il vero Markel Brown, e sembra di rivedere l’Uthoff di inizio partita: infila una imponente sequenza da oltre l’arco dei 6,75, centrando pure un’azione da 4 punti, difende sempre piegato sulle gambe e mani addosso a Winston e e Barford, recupera palloni, penetra andando indisturbato al ferro dopo aver seminato il povero, impotente, Uglietti, che pur rimane un ottimo difensore.
Ed infine, quando a rimanere in bilico (grazie al massimo sforzo profuso dalla squadra di casa, che getta generosamente sul parquet ogni singolo atomo di energia residua) è solamente il +12, dopo 37 minuti positivi ma non eccellenti, sale in cattedra Colbey Ross, che infila prima un “and one” portando la sua squadra sul +15, e nell’azione successiva, dopo l’immediata tripla di Winston, centra un canestro da oltre l’arco che vale, con il definitivo +15, la vittoria nella vittoria.
Parlare dei singoli però, nonostante le esibizioni ben oltre l’eccellenza di Uthoff e Brown, sarebbe ingeneroso dinanzi ad una prestazione collettiva che pare la Filarmonica di Vienna che nel concerto di Capodanno esegue con il sorriso i walzer di Strauss.
Ad esempio, l’ex solista Denzel Valentine, fino all’espulsione di Bologna un mangiapalloni indisciplinato sebbene geniale, si conferma vero uomo squadra, capace di catalizzare l’attenzione delle difese ed abile nell’approfittarne per pescare sempre il compagno libero, rinunciando a tiri che pur sarebbero nelle sue corde a favore della soluzione più semplice ed a più alta percentuale di successo.
Limita le palle perse (lui che è il leader della “specialità” in LBA), cattura rimbalzi, piazza assist, finendo invariabilmente per festeggiare schitarrando davanti al settore ospiti al termine del match.
Johnson e Candussi, con quest’ultimo che cresce anche come mentalità da killer di partita in partita, ribaltano in modo evidente la superiorità strategica sotto canestro, generando sfiducia nel giovane Faye, solitamente straripante se lasciato libero di fluttuare sopra il ferro (solo un alley up concesso, del resto battezzare un centro così verticale quando decolla può anche essere una scelta condivisibile), ma autore di errori banali ed ingenui evidentemente indotti dalla difesa.
Giornata in pantofole, invece, per tutti gli altri. Michele Ruzzier rimane in campo solo 13 minuti, ma tutto sommato non c’era la necessità impellente di farlo giocare troppo sulla caviglia infortunata domenica scorsa: solita regia diligente ed intelligente per il play triestino, che come al solito si prende pochissime iniziative in attacco, completando la sua permanenza sul parquet senza tentare nemmeno un tiro.
Jeff Brooks è più impreciso del solito, del resto si fa presto a risultare più imprecisi del solito se si viaggia al 75% di media.
Dà comunque il suo contributo con 4 rimbalzi ed una tripla importantissima per rintuzzare un primo timido tentativo di rientro nel match da parte di Reggio Emilia.
Justin Reyes appare ancora evidentemente indietro di condizione, non riesce a sbloccarsi da oltre l’arco nonostante un’ottima occasione in campo aperto e finisce con -14 di plus/minus.
Fisicamente sembra in progresso rispetto a domenica scorsa contro Pistoia, soprattutto in difesa, ma per riaverlo al top, sempre che sia possibile, bisognerà probabilmente avere abbondante pazienza.
Unica nota negativa, che in una serata di grazia del genere risalta come un fulmine in una caverna, è la percentuale dalla lunetta, ancora una volta ben sotto il 70%: quando ottieni ben 22 tiri liberi, oltretutto in gran parte cercandoli scientemente tramite penetrazioni nel cuore del pitturato, sbagliarne 7 in una partita più equilibrata di quella in Emilia potrebbe rivelarsi l’ago della bilancia in negativo.
Stupisce, oltretutto, che in questa specialità al contrario “eccellano” in modo trasversale un po’ tutti, i lunghi come le guardie.
Non sappiamo se, con professionisti così esperti in una fase così avanzata della loro carriera sia possibile porre dei correttivi, e magari è solo un problema di concentrazione più che tecnico, ci limitiamo però a constatare come Trieste continui ad essere ultima in Serie A nella specifica voce statistica e ciò sorprende non poco.
Per una volta la squadra triestina non domina a rimbalzo, ed anzi ne prende uno in meno degli avversari, concedendone ben 12 in attacco e rimanendo ben sotto la media di 39 rimbalzi a partita (sono 33 quelli catturati al PalaBigi).
Peccato del resto veniale alla luce dei pochi errori al tiro. Per contro, gli uomini di Coach Christian perdono molti meno palloni rispetto al solito, rimanendo al di sotto dei 10 turnovers (9 per l’esattezza), segno di una partita attenta e diligente da parte dei portatori di palla.
Ed inoltre, a conferma dell’ottima prova sotto canestro, Trieste rimane in media campionato per le stoppate date: i quattro blocchi “e mezzo” (una stoppata regolare di Johnson su Uglietti è stata sorprendentemente quanto erroneamente considerata irregolare) sono il risultato dell’atteggiamento intimidatorio che è riuscito a domare acrobati come Faye e Faried.
Al di là dei numeri, ciò che più colpisce è che la Pallacanestro Trieste sia ormai talmente matura da cogliere prepotentemente l’occasione preannunciata dal suo coach, portando a casa con grandissima personalità la sesta vittoria in trasferta in stagione e smettendo definitivamente i panni dell’outsider neopromossa per vestire quelli della squadra temuta e rispettata, dall’alto dei suoi venti punti in classifica.
La squadra giuliana è ora decisamente più vicina alla vetta rispetto a quanto lo sia dal nono posto, ed in questo senso aiuta la vittoria di Trento su Treviso nel secondo anticipo del sabato, che lascia la squadra della Marca a 14 punti.
Domenica è previsto lo scontro al Taliercio fra Venezia e Milano, che in caso di vittoria dei campioni d’Italia porterebbe a sei il margine di sicurezza in classifica, consentendo alla squadra rossoalabardata di potersi dedicare anima e corpo per una settimana intera alla preparazione della prossima trasferta al Forum di Assago, con la leggerezza e la consapevolezza di chi sa che qualunque impresa, giocando così, è alla portata.
Domenica prossima si prevede l’ennesimo esodo del Red Wall: in città è finalmente -e definitivamente- tornata la basket mania.

(diritti riservati TSportintheCity)
Crediti: foto Panda Images

In collaborazione con TSportintheCity – articolo di Francesco Freni

PALLACANESTRO TRIESTE – PISTOIA BASKET: 80-75
Pallacanestro Trieste: Bossi, Ross 8, Reyes 2, Deangeli (k), Uthoff 10, Ruzzier 5, Campogrande n.e., Candussi 12, Brown 8, Brooks 10, Johnson 8, Valentine 17.
Allenatore: J. Christian. Assistenti: F. Taccetti, F. Nanni, N. Schlitzer.
Pistoia Basket: Benetti n.e., Christon 3, Della Rosa (k), Anumba, Pinelli n.e., Rowan 10, Kemp 22, Cooke Jr 6, Forrest 22, Boglio n.e., Saccaggi, Silins 12.
Allenatore: Gašper Okorn. Assistenti: Tommaso Della Rosa, Giuseppe Valerio.

Arbitri: Mazzoni, Pepponi, Lucotti.

TRIESTE – Trieste completa con una vittoria il girone d’andata, gira la boa al settimo posto forte di nove successi in 15 partite ed ora è attesa, tanto per rimanere in tema velistico, da un lato di bolina in cui lo skipper dovrà essere bravo a catturare ogni alito di vento per mantenere salda la rotta.
Un lato di bolina che inizierà con due trasferte consecutive a Reggio Emilia (raggiunta in classifica da Trieste proprio sull’ultima virata, ma che ha tirato per vincere a Milano, fallendo il buzzer beater), al Forum di Assago sul campo dei campioni d’Italia (che precedono Trieste di sole due lunghezze), in casa con Tortona (che, vincendo per il rotto della cuffia in casa con Scafati riesce a rimanere per un soffio nelle F8) e sul campo della attuale capolista solitaria Leonessa Brescia, prima di assaporare l’atmosfera dei grandi eventi alla Inalpi Arena di Torino, dove è attesa dall’ambiziosa Trapani per il quarto di finale di Coppa Italia.
Final Eight che Trieste raggiunge per la terza volta negli ultimi cinque anni: nella prima occasione, nel 2020/2021 la squadra guidata da Eugenio Dalmasson finì settima il girone d’andata ma con soli 14 punti in classifica, la seconda volta, nella stagione successiva, con la guida di Franco Ciani i biancorossi finirono addirittura terzi pur conquistando lo stesso numero di vittorie della squadra attuale.
In entrambi i casi la qualificazione finì per essere di per sé stesso un traguardo e sfociò in due esibizioni rinunciatarie nei quarti di finale, in cui Trieste fu massacrata da Brindisi e da Tortona.
Ma alla Coppa Italia -ed alla determinazione nel tentare di vincerla veramente- c’è ancora tutto il tempo per prepararsi, e lo stesso Jamion Christian la vede come un impegno ancora ben oltre l’orizzonte.
Tutta la sua attenzione è ora concentrata, piuttosto, sull’impegno di sabato prossimo a Reggio Emilia, dove la sua squadra avrà il compito (lui la definisce “l’occasione”) di ribaltare il -12 con il quale gli emiliani si imposero lo scorso ottobre al PalaTrieste.
E dunque, anche e soprattutto per tutto ciò che attende i biancorossi nelle prossime settimane, il risultato della partita contro Pistoia andava ben al di là della curiosità di conoscere il piazzamento finale dopo metà campionato con la conseguente definizione del tabellone delle finals di Torino.Finire bene, senza fallire un impegno che tutti i pronostici si affrettavano un po’ imprudentemente a considerare già segnato in partenza, conquistando con la quarta vittoria nelle ultime cinque partite due punti fondamentali che tengono le più immediate inseguitrici (ed il nono posto) a quattro punti di distanza, si rivela un compito niente affatto banale, davanti ad una squadra, come quella toscana, in grande difficoltà dopo otto sconfitte consecutive, con un roster ed una panchina che sembrano porte girevoli, una società sotto attacco dalla tifoseria, il morale sotto i tacchi ed una chimica di squadra a dir poco approssimativa, ma proprio per questo imprevedibile, come ogni animale ferito e con le spalle al muro.
Oltretutto, dotata anche di un quintetto base tutto sommato temibile, con gli esterni Forrest e Christon, le ali Rowan e Kemp ed il nuovo centro Derek Cook Junior (apparso peraltro vistosamente spaesato dopo i due soli allenamenti svolti con la squadra) con tanti punti potenziali nelle mani e la dinamicità giusta per risultare temibili anche sotto canestro, dove Pistoia è nelle primissime posizioni in Serie A in quanto a rimbalzi difensivi conquistati.
Trieste, però, finché può farlo capitalizza la prima occasione nella quale può finalmente scendere in campo al completo, veramente al completo con l’ennesimo tentativo di esordio di Justin Reyes.
Se Jamion Christian per quasi mezz’ora di gioco riesce a ruotare nove giocatori potenzialmente da quintetto, il povero Okorn può solo guardare un po’ sconsolato la panchina dietro a sé, dove siedono tre o quattro comprimari o poco più.
Trieste prima lascia sfogare, poi contiene la voglia e la convinzione iniziali di Pistoia, poi inizia a fare sul serio, aumenta i giri in attacco, raddoppia sistematicamente i tiratori avversari e, soprattutto blinda completamente il pitturato dominando letteralmente a rimbalzo sui due lati del campo.
Nel secondo quarto, in particolare, la squadra di casa diverte e si diverte, è inarrestabile in contropiede o in transizione, azioni che nascono dagli errori al tiro avversari ma anche, per una volta, dalle palle perse di una squadra che ne perde più di lei.
Trieste è velocissima nel muovere la palla, trova sempre l’uomo libero con la palla che finisce nelle mani di tiratori letali come Brown, Valentine e Uthoff, è disorientante per gli avversari con interpretazioni del ruolo di point guard diametralmente opposte di Colbey Ross e Michele Ruzzier, oltretutto impiegati a tratti anche insieme in campo.
Poi, quando sarebbe il momento di dilagare per potersi concedere il lusso di amministrare il vantaggio nel secondo tempo, sul +16 i biancorossi commettono l’errore di piacersi eccessivamente, cedono alla tentazione di concedere troppo allo spettacolo, perdono un paio di palloni banali e chiudono la prima metà di partita subendo un parziale fatto di due bombe in contropiede che, pur tenendo Pistoia oltre i 10 punti di distanza, danno anche agli ospiti la sensazione che, alzando l’intensità e la convinzione, qualche granello di sabbia nel meccanismo fin lì pressoché perfetto di Trieste sarebbero pure in grado di metterlo.
Ed infatti Pistoia ci prova con decisione, essendo del resto priva di alternative. Rowan e soprattutto Forrest e Kemp trovano un po’ di continuità in attacco, specie quando approfittano di cambi difensivi non tempestivi e riescono ad avvicinarsi al ferro.
Il loro problema, però, è che Trieste non molla nulla in attacco e quindi la partita rimane in una sorta di “stallo tecnico” almeno finché, a metà terzo quarto, l’incantesimo vissuto dai 5500 presenti al PalaTrieste si rompe fragorosamente: in effetti, avere la squadra al completo a lungo sarebbe stata troppa grazia, e quindi prima Colbey Ross viene accompagnato negli spogliatoi dopo aver ricevuto un forte colpo sullo zigomo (nulla di grave per lui, che però non rientrerà più fino alla fine) poi Michele Ruzzier si scaviglia e viene portato fuori dal campo a braccia senza riuscire ad appoggiare il piede.
Christian rimane improvvisamente senza i suoi due playmaker titolari e per la squadra si spegne improvvisamente la luce.
In effetti, una cosa è pensare ad un piano B, magari prevedendo correttivi in caso di una o due assenze, un’altra è gestire l’assenza improvvisa di due giocatori così importanti nello stesso ruolo a partita in corso.
Gli ospiti sentono l’odore del sangue e si mettono a pressare a tutto campo, Trieste schiera per un po’ Stefano Bossi, che non si aspettava di essere impiegato in una serata di abbondanza come questa, poi si affida per portare su la palla a due guardie come Brown e Valentine.
Pistoia dimezza lo svantaggio, ma senza mai dare l’impressione di poter riuscire a completare l’impresa: i possessi di vantaggio per Trieste, tranne che per qualche secondo, saranno sempre due o più di due fino alla sirena finale, anche perchè nel momento del bisogno i biancorossi trovano sempre almeno un giocatore che li prende per mano e li traghetta fuori dalle sabbie mobili.
Nel momento di maggiore difficoltà, quindi, a decidere di averne avuto abbastanza è il solito pazzo, imprevedibile, sornione, immarcabile Denzel Valentine, che al solito campionario offensivo stavolta aggiunge una sorprendente dedizione difensiva, con più palle recuperate che perse (proprio lui, che è primo in serie A per turnovers).
L’importanza del barba, però, va oltre quello che si può leggere sul tabellino: lui è il go to guy nei momenti difficili, lo sanno i suoi compagni, che ormai lo considerano una coperta di Linus, lo sanno anche gli avversari, che però a questi livelli, pur sapendolo, non hanno armi per contrastarlo.
Ma non c’è solo Valentine: quando la palla scotta, in una partita che lui stesso ha definito psicologicamente difficile da affrontare per motivi extra sportivi, Francesco Candussi infila due bombe ed una schiacciata di importanza incalcolabile per l’economia del risultato, si prende ben 10 conclusioni e dimostra una ulteriore crescita dal punto di vista tecnico e della personalità.
Sotto i colpi dei due giocatori “in charge” Pistoia sente di non avere la forza per completare la rimonta, perde progressivamente convinzione e, soprattutto, paga lo sforzo perdendo lucidità, sbagliando i tiri che avrebbero potuto potenzialmente riportare l’incontro in equilibrio e pressoché “regalando” uno dei potenziali protagonisti annunciati, un Semaj Christon demotivato ed indolente, irriconoscibile rispetto ai fasti di Tortona un paio di stagioni fa, che finisce con 1 di valutazione ed una preoccupante inconsistenza sui due lati del campo.
Ma si sa, la pallacanestro potrà anche essere un gioco in cui i numeri potranno non dire tutto per spiegare un risultato come il coraggio e gli attributi di Valentine e Candussi insegnano, ma letti a posteriori sono invariabilmente l’esatta sintesi di ciò che si è visto in campo.
Leggendo il tabellino della partita contro Pistoia è inevitabile, perciò, notare una prestazione che ad occhio nudo pareva silente ed “appesantita” da un 2 su 7 dalla linea dei tiri liberi che grida vendetta.
Ma i numeri generati da Jayce Johnson raccontano con esattezza il dominio suo e, di conseguenza, della sua squadra sotto canestro: 21 di valutazione (il migliore fra i suoi, secondo fra i venti scesi in campo), 13 rimbalzi, di cui 5 in attacco, 8 falli subiti e pure 3 assist.
Contro squadre “leggere” come Pistoia il californiano è sempre più dominante: quando si convincerà a liberarsi da un certo atteggiamento intimidito e rinunciatario anche contro i centri dalla potenza fisica debordante come quelli di Trento o Venezia o quelli fisicamente normali ma tecnicamente superiori come quello di Brescia, atteggiamento che deriva più dal suo autoconvincimento che da effettiva ed incolmabile superiorità degli avversari, potrà potenzialmente diventare uno dei “cinque” più determinanti dell’intera LBA.
Nonostante la superiorità strategica sotto canestro, però, il gioco offensivo triestino è sempre fortemente sbilanciato verso il perimetro, peraltro così come vuole il coach, che definisce la distribuzione delle conclusioni (30 tiri da 2 – realizzati il 67% delle volte – e 41 da tre – con il 30% scarso di successo) declinata in campo esattamente come preparata in palestra.
C’è, però, ancora spazio e necessità di migliorare, perchè sbagliare 29 conclusioni da oltre l’arco con squadre capaci più di Pistoia di dar filo da torcere a rimbalzo si tradurrebbe invariabilmente in una sconfitta: è sempre, quindi, una questione di bad execution di tiri costruiti bene, non di scelta concettuale, e tanto basta al coach, per il momento, per essere soddisfatto.
Justin Reyes, dal canto suo, appare ancora lontanissimo da uno stato di forma almeno accettabile, sebbene sembri determinato e non si tiri indietro anche nei movimenti più pericolosi come i cambi di direzione, i salti, le difese piegato sulle gambe.
Viene ancora battuto troppo facilmente negli uno contro uno -generando in lui grande frustrazione, dal momento che i ruoli, rispetto alla normalità, sono invertiti- ma il suo rientro, come del resto la standing ovation tributatagli dal pubblico al momento del rientro dimostra, è visto da tutti come una liberazione e getta una ventata di ottimismo sul resto della stagione.
Sorrisi ed ottimismo offuscati dalla preoccupazione per le condizioni di Michele Ruzzier, la cui eventuale assenza prolungata sarebbe un problema di non facile soluzione per Jamion Christian, sebbene di alternative temporanee nel ruolo (se preparate a dovere in settimana) ce ne siano in abbondanza.
E soprattutto, compensati dalle lacrime versate in spogliatoio dal gruppo squadra (soprattutto, c’è da giurarci, dai suoi “fratelli” Deangeli e Candussi) per la partenza di Stefano Bossi, preannunciata da qualche giorno e confermata in sala stampa dallo stesso giocatore e dal GM Arcieri.
Stefano non si è mai lamentato, negli ultimi tre anni di permanenza a Trieste, di uno scarso impiego che aveva certamente messo in conto, facendosi però trovare sempre pronto quando le circostanze lo chiamavano a gettare il cuore sul parquet magari a freddo e con pochissime azioni in cui dare tutto sé stesso.
Nella carriera di un giocatore, però, arriva il momento nel quale la voglia di giocare, di tornare protagonista per come sente di poter ancora essere, prevalga sulla determinazione a voler continuare a sposare la causa della sua città accanto a compagni di squadra di una vita che hanno condiviso con lui momenti esaltanti e tragedie sportive, gioie e dolori dentro e fuori dal campo.
“If you love somebody set them free” afferma un commosso Michael Arcieri (bravo nel controllare lacrime che avrebbero voluto uscire libere a testimoniare il suo sincero attaccamento ad un ragazzo che è stato il primo a chiamarlo nell’estate 2023 per offrirsi di tentare l’immediata risalita in Serie A e che incarna tutti i valori umani ed etici che lui stesso reputa indispensabili per giocare in una squadra ideale).
Ad Arcieri non piace cambiare, e Bossi il GM lo avrebbe tenuto fino alla fine della stagione.
Ma, appunto, se ami qualcuno devi avere il coraggio di lasciarlo libero di andare. Orzinuovi, squadra ambiziosa di A2 che proprio nei giorni scorsi aveva rinunciato al play Simone Pepe ed era alla ricerca di un nuovo protagonista cui affidare le chiavi della squadra, saprà certamente rimetterlo al centro di un progetto.
La storia sportiva ed umana di Stefano lo meritano, anche se non sentire più chiamare il suo numero 3 durante la presentazione delle squadre renderà un po’ meno familiare la serata al Palatrieste.
Arcieri, come prevedibile, non risponde all’inevitabile domanda sulle strategie di mercato conseguenti a questa partenza, volendo cedere l’intera scena della serata a Stefano. Ma il rientro di Reyes e l’uscita di un italiano potrebbero anche essere il segnale di un cambio di rotta sulle prossime eventuali decisioni, che peraltro non sembrano imminenti.

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Crediti: foto Panda Images
Ph. Antonio Barzelogna