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In collaborazione con TSportintheCity – articolo di Francesco Freni
VIRTUS BOLOGNA – PALLACANESTRO TRIESTE: 70-78
Virtus Bologna: Cordinier 14, Pajola 7, Clyburn 11, Visconti n.e., Hackett 2, Grazulis 3, Morgan 9, Polonara 5, Diouf 1, Zizic 16, Akele 2, Tucker.
Allenatore: D. Ivanovic. Assistenti: N. Jakovljevic, D. Parente.
Pallacanestro Trieste: Bossi n.e., Ross 19, Obljubech n.e., Deangeli (k), Uthoff 12, Ruzzier 10, Campogrande 2, Candussi 9, Brown n.e., Brooks 12, Johnson 6, Valentine 8.
Allenatore: J. Christian. Assistenti: F. Taccetti, F. Nanni, N. Schlitzer.
Arbitri: Rossi, Vallerani, Capotorto.

BOLOGNA – Speriamo che il buon Lucio Dalla, virtussino DOC, da lassù non se ne abbia troppo a male se usiamo il titolo di uno dei suoi capolavori immortali per descrivere un’impresa a metà fra il miracoloso e l’epico di una squadra che, la sua Virtus, l’ha meritatamente battuta a casa sua.
Nella trasferta più difficile dell’anno, nel momento più complicato per gli infortuni agli uomini più importanti, dopo quattro sconfitte consecutive e davanti a pronostici che la davano come inevitabile vittima sacrificale sul campo dal respiro europeo della Segafredo Arena due giorni dopo l’epica vittoria all’ultimo respiro a Vitoria dei padroni di casa, Trieste sfodera una prestazione clamorosa, costruita prima di tutto su attributi solidissimi ed un carattere indomito che già conoscevamo, una sfacciataggine ed una resilienza che da fine agosto costituiscono il tratto distintivo di questo roster.
Ma limitare al carattere ed all’incapacità di arrendersi alle avversità le motivazioni che consentono alla Pallacanestro Trieste di tornare dall’Emilia con due punti dal peso specifico incalcolabile sul pullman che la riporta sotto San Giusto sarebbe ingiusto e limitante.
La verità è che Trieste, in qualunque conformazione viene schierata, è capace di pensare, di avere pazienza, di fare la cosa giusta al momento giusto, di approfittare della prestazione insufficiente di una Virtus distratta prima, supponente poi, frustrata alla fine, con una intelligenza che la avvicina alla perfezione.
Coach Ivanovic, per ovvie questioni di turn over dopo una dispendiosa (anche se vittoriosa) trasferta in Spagna ed alla vigilia del doppio turno europeo, rinuncia a Toke Shengelia e Marco Belinelli, centellina l’utilizzo di Achille Polonara, ma può pur sempre contare su almeno 9 giocatori da quintetto in qualunque altra squadra in LBA, una superiorità tecnica di base accentuata dall’assenza di Markel Brown e Justin Reyes e dal rientro a scarto ridotto di Colbey Ross.
E comunque il carattere esuberante dell’esperto allenatore montenegrino e l’entusiasmo derivante dalla vittoria a Milano nell’ultimo turno di campionato doppiata nei Paesi Baschi grazie al gioco da 4 punti di Will Clyburn non consentono certo di credere veramente che la Virtus possa aver sottovalutato l’impegno contro una squadra tignosa che aveva dato filo da torcere a Trento, Trapani e Brescia nelle stesse condizioni di roster.
Molto più semplicemente, Trieste si mette finalmente a difendere in modo efficace ed intenso, contestando ogni singola linea di passaggio finalizzata a liberare i tiratori da oltre l’arco (alla fine sarà 6 su 20 il conto delle triple per la Virtus), concedendo -anche per problemi di falli- libertà sotto il ferro ad un inarrestabile Ante Zizic ma intasando il pitturato in modo da impedire sistematicamente le incursioni di Cordinier, Clyburn, Paiola e Morgan (praticamente mai arrivati al ferro), brutalizzando Hackett, il cui unico discutibile merito rimane quello di provocare il trash talking che genera il secondo tecnico e l’espulsione di Valentine ma che viene sistematicamente raddoppiato e forzato a commettere errori (2 punti, 2 palle perse, -4 di valutazione e -32 di plus/minus per l’ex compagno di squadra di Jeff Brooks raccontano in modo eloquente la sua partita).
Per uno Zizic inarrestabile, però, i lunghi triestini spingono lontano dal ferro Diouf, che fuori dalla sua comfort zone a mezzo metro dal canestro perde i superpoteri, e Grazulis, costretto a prendersi conclusioni da fuori che sarebbero pure nelle sue corde ma costituiscono solo metà dell’arsenale a sua disposizione, ma indotto anche a commettere falli ingenui a metà campo sul portatore di palla quando tenta lo show difensivo.
Se un aspetto statistico poteva essere temuto più di altri, specie in presenza di difensori intensi, fastidiosi ed intelligenti come Pajola e Cordinier, era sicuramente quello delle palle perse, specie per una squadra che nelle ultime partite perdeva mediamente più di 15 palloni.
Ed in effetti, dopo quattro minuti nel primo quarto la specifica casella recitava già 4 turnovers, facendo presagire una partita caratterizzata da decine di contropiede virtussini.
Succede, però, che Valentine dopo pochi minuti sia costretto a prendere la via degli spogliatoi trattenuto per la maglia dal team manager Nicola Pilastro: da quel momento, i turnovers saranno solo tre, e tutti nel primo tempo.
Nei secondi decisivi venti minuti Trieste non perderà più nemmeno un pallone, piazzando uno dei mattoni più importanti nelle fondamenta di questa vittoria.
Detto dello strapotere di Ante Zizic, non è possibile evitare di notare come il quartetto costituito dai due “cinque” di ruolo Candussi e Johnson e dai due lunghi aggiunti Uthoff e Brooks consentano di vincere clamorosamente la sfida a rimbalzo: 35 carambole conquistate da Trieste contro le 33 catturate da Bologna, con ben 11 rimbalzi offensivi quasi sempre trasformati in seconde o terze chance vincenti.
Candussi e Johnson fanno quello che sono chiamati a fare, con il primo a colpire da oltre l’arco (attirando i lunghi avversari fuori dall’area creando praterie sotto canestro), il californiano a catturare rimbalzi ed addirittura andare a schiacciare per ben due volte, per la prima volta in stagione.
Secondo mattone su cui il sacco della Segafredo Arena è costruito.
Terzo mattone: la prima partita veramente convincente di Luca Campogrande e Lodo Deangeli, chiamati a compiti di sacrificio e poco appariscenti svolti in modo umile ma estremamente diligente ed efficace, specie nella metà campo difensiva, dove costringono sistematicamente gli avversari a forzature ed errori, palle perse (12) e sorpresa frustrazione.
Naturalmente non è possibile evitare di notare come il rientro al comando, pur non al 100%, di Colbey Ross abbia letteralmente riacceso la luce nella metà campo offensiva. L’ex MVP rimane l’accentratore di sempre, ma si prende responsabilità clamorose nel momento più importante ed emotivamente più difficile, quando la palla pesa mezzo quintale ed a emergere rimangono solo i giocatori dotati di attributi e sfacciataggine in misura non comune.
Ross realizza 19 punti in 23 minuti (probabilmente molti più di quanto programmato), tirando con il 56% da tre, ma soprattutto prendendo la squadra per mano prima nei momenti più difficili (il -8 con possibile -11 nel primo quarto, il -3 nell’ultimo quarto con inerzia in mano alle V nere), poi quando era essenziale piazzare le mazzate decisive (tre triple nel finale dal peso specifico incalcolabile).
Ross è coadiuvato in regia da un Michele Ruzzier sempre più padrone delle sue prestazioni, sempre più autoritario e decisivo: Michele è un giocatore diverso rispetto a quello arrivato a Trieste proprio da Bologna nel dicembre 2022, notevolmente più completo, migliorato dal punto di vista tecnico, più solido e sicuro di sé dal punto di vista mentale. Un leader vero.
E poi, i due veri valori aggiunti dell’intera stagione, decisivi a Bologna come in ogni singola occasione precedente.
Se a Jarrod Uthoff non è stato fatto firmare un contratto pluriennale o non si stia tentando di allungare quello in essere, ciò costituirebbe un errore clamoroso: l’uomo di Iowa è un coltellino svizzero capace di svolgere in modo credibile compiti in almeno tre ruoli (di cui due non naturali), glaciale nel non abbattersi per errori banali, determinato nel voler reagire immediatamente agli stessi.
Sbaglia un tiro aperto da tre? Stoppa, parte in contropiede, prende un rimbalzo in attacco, segna la tripla nell’azione successiva. 20 di valutazione complessiva ed una presenza costante, una specie di totem per coach Christian.
Siamo, infine, indecisi se chiedere di costruire una statua equestre a Jeff Brooks o a chi abbia deciso in estate che l’ex Reyer possa essere un elemento in grado di fare ancora la differenza in Serie A.
Chiamato nuovamente a partire in quintetto, il trentacinquenne americo-italiano tiene il campo con autorità per 37 minuti, elevando a dismisura intensità, efficacia e responsabilità quando la partita e la situazione di punteggio portano ad esigere esperienza, furbizia e sangue freddo.
Il suo campionario è costituito da punti (12) e rimbalzi (8), dal 75% da due punti ed il 50% da tre, ma soprattutto da un finale di partita da incorniciare, in cui prima realizza punti decisivi, poi dà coraggio ed esalta i compagni, impedisce loro di abbattersi nel momento di massimo sforzo della Virtus e dà loro il sangue freddo per ragionare quando arriva il momento di non forzare, di non commettere errori stupidi, di lasciare che i due punti vengano da soli a sedersi sulla panchina triestina. Il 24 finale di valutazione, pur lusinghiero, racconta poco dell’importanza basilare di questo giocatore nell’economia complessiva della squadra.
Angoli da smussare ne rimangono a bizzeffe, e siamo sicuri che lo staff tecnico già da domani continuerà a lavorarci.
Messa a posto per una volta la casella delle palle perse e quella dell’organizzazione difensiva, rimane da valutare la percentuale dalla linea della carità: in una partita giocata sul filo dell’equilibrio, con avversari in bonus molto presto nel quarto quarto, tirare con il 65% potrebbe rivelarsi letale.
E poi, è indispensabile maggiore disciplina nell’evitare di protestare inutilmente ed in modo troppo plateale: posto che in Serie A gli arbitri tendono a sanzionare atteggiamenti sopra le righe, specie fuori casa, evitare di prestare loro il fianco eviterebbe conclusioni a cronometro fermo quando meno è opportuno subirne.
A Bologna i 4 tecnici fischiati costano un’espulsione e poco più (dal momento che i conseguenti tiri liberi sono stati tutti sbagliati), ma si tratta di un demerito della Virtus se tali sanzioni non si siano rivelate decisive.
Concluso il ciclo terribile con la conquista di una vittoria che riporta Trieste al sesto posto (a pari punti, fra le altre, con una Milano questa sera clamorosamente fuori dalle prime 8) si squarcia la coltre di nubi nerissime che si erano addensate sul cielo triestino.
Questo risultato, conquistato nel momento più inaspettato, può potenzialmente costituire un vero game changer per la stagione biancorossa, che non aveva mai perso consapevolezza delle proprie qualità ma faticava a monetizzarle sul campo.
Conquistare uno scalpo così prestigioso, dopo che nel carniere sono già stati messi quelli di Milano e Tortona, potrebbe fungere da vero interruttore nelle menti dei biancorossi anche sul piano dei risultati, oltre che su quello dei complimenti. Inoltre, tre delle quattro partite che rimangono da qui al termine del girone d’andata si disputeranno al PalaTrieste (sabato prossimo contro Cremona, la domenica successiva contro Venezia e dopo due settimane contro Pistoia), con l’unica trasferta prevista nella tensostruttura adattata a palasport di Scafati.
Se non già contro Cremona, quasi certamente contro Venezia la squadra tornerà a poter contare anche su Markel Brown, mentre sono attese novità sul fronte Reyes o sul suo possibile sostituto.

Nella notte che sta per finire
È la nave che fa ritorno
Per portarci a dormire (*)

(*) La Sera Dei Miracoli (Lucio Dalla, (C) Sony/ATB Music Publishing LLC, Universal Music Publishing Group)

(diritti riservati TSportintheCity)
Crediti: foto Panda Images

In collaborazione con TSportintheCity – articolo di Francesco Freni
PALLACANESTRO TRIESTE – BASKET BRESCIA: 65-69
Trieste: Bossi, Deangeli (k) 2, Uthoff 15, Ruzzier 16, Campogrande, Candussi 8, Brooks 7, Johnson 5, Valentine 12, Paiano n.e., Crnobrnja n.e., Obljubech n.e.
Allenatore: Jamion Christian. Assistenti: Francesco Taccetti, Francesco Nanni, Nick Schlitzer.
Brescia: Bilan 17, Ferrero, Dowe 9, Della Valle 9, Ndour 4, Burnell 12, Tonelli n.e., Ivanovic 2, Mobio, Rivers 12, Cournooh 4, Pollini n.e..
Allenatore: Giuseppe Poeta. Assistenti: Matteo Cotelli, Gianpaolo Alberti.
Arbitri: Borgo, Lucotti (Baldini infortunato)

TRIESTE – Una Pallacanestro Trieste con la pattuglia straniera ancora decimata perde una partita brutta per tre quarti, in cui le difese prevalgono decisamente su attacchi dalle polveri bagnate sui due lati del campo, con Brescia che approfitta dei due quarti centrali (durante i quali Trieste non raggiunge i 10 punti segnati) per scavare quel gap che si limiterà ad amministrare non senza qualche affanno nei dieci minuti finali.
Non è solo una questione di lunghezza di rotazioni, e tutto sommato nemmeno di punti prodotti dalla coppia ancora assente (parlare di trio è del tutto inutile: di Reyes non sono noti tempi e possibilità di rientro, dunque tanto vale non contarci nemmeno): Markel Brown e Colbey Ross aggiungono alla squadra inventiva e capacità di creare gioco che, in loro assenza, diventa prevedibile e macchinoso, con equilibri da ricreare e, talvolta, improvvisare sia in attacco che in difesa.
Ne esce una partita sghemba, che Poeta riassume giustamente con alcuni “nonostante”: “L’abbiamo vinta nonostante il 3 su 16 da tre punti -il 19%-, nonostante la sconfitta a rimbalzo -46 a 44, di cui ben 19 rimbalzi offensivi concessi a Trieste-, nonostante una percentuale al tiro da 2 inferiore agli avversari, nonostante una produzione offensiva inferiore ai 70 punti, nonostante i 31 punti realizzati da Trieste nell’ultimo quarto: normalmente, fuori casa, con questi numeri la perdi, ed invece stasera l’abbiamo portata a casa”.
La spiegazione, in realtà, non è difficile da dare: Trieste produce statistiche non tanto migliori, ma di gran lunga più sbilanciate: si incaponisce da oltre l’arco tirando 34 volte da 3 (centrando solo 8 volte il bersaglio) e 31 da due, mentre Brescia, quando capisce che la serata da fuori è nata storta, limita i tiri dai 6.65 (solo 16 le triple tentate in 40 minuti per la squadra lombarda), concludendo invece ben 54 volte da sotto, sfruttando la solidità di Bilan ed il fisico nell’uno contro uno di Burnell, Dowe e Rivers.
Scelta che nel terzo quarto permette di produrre l’accelerazione che genera il break decisivo, complici anche i 5 minuti di blackout offensivo biancorosso.
Trieste perde nuovamente una caterva di palloni, ma la casella che recita 15 turnovers non spiega quanto sanguinosi siano stati alcuni di essi, in momenti cruciali dell’incontro.Interessante anche l’analisi della qualità dei tiri costruiti -e falliti- da Trieste: stavolta sono stati moltissimi i tiri aperti non contrastati a non entrare in momenti che avrebbero potuto cambiare definitivamente l’inerzia dell’incontro, una cattiva esecuzione di un gioco decente che alla fine costa la partita nonostante la conquista con i denti del pieno diritto di giocarsela fino in fondo, senza peraltro dare mai l’impressione di poter realmente completare l’opera.
Per una volta, però, le rotazioni corte non impediscono di finire con un evidente crescendo di intensità fisica e di lucidità, sebbene la ritrovata precisione offensiva arrivi troppo tardi per approfittare di un’avversaria che toglie troppo presto il piede dall’acceleratore.
Del resto, soprattutto in casa con l’intero palazzo a spingere la rimonta, questa squadra, con qualunque quintetto sia costretta a presentarsi, è priva del tratto genetico della resa incondizionata.
In tempi non troppo lontani un -21 a 15 minuti dalla fine, con tre stranieri, fra cui i migliori giocatori del roster, fuori causa, dopo aver realizzato la miseria di 17 punti nei venti minuti centrali contro i secondi in classifica che si presentano al completo ed in totale fiducia, sarebbe con ogni probabilità diventato un -30 con mani lungo il corpo, testa china e voglia matta di andare sotto la doccia anzitempo.
Quest’anno non succede mai nulla di tutto ciò: Trieste mostra orgoglio e voglia di reazione, i suoi leader suonano la carica, Valentine ha la giusta faccia tosta e non si lascia certo travolgere dalla pressione della responsabilità anche se deve ancora imparare a valutare con maggiore precisione quando è il momento di fidarsi dei compagni -anche se liberi- e quando è preferibile invece mettersi in proprio, Uthoff non arretra di un millimetro ed è intimidatorio soprattutto in difesa, Ruzzier capisce quando è il momento di prendersi iniziative offensive che peraltro sono nelle sue corde anche tramite l’attacco diretto al ferro, Brooks è un capo popolo trascinatore dentro e fuori dal campo, solido mentalmente e fisicamente a dispetto di una età che sta solo sulla carta d’identità.
La sua prestazione difensiva su Bilan per gran parte dell’incontro limita il centro croato apparso a tratti intimidito sotto canestro, anche se poi finisce con una doppia doppia da 17 punti e 21 rimbalzi frutto di un gioco che piacerà tantissimo ai detrattori del run and gun in favore del “bel” basket di una volta: palla in post basso, palleggi compulsivi senza passaggi per 15-18 secondi spalle a canestro, avvicinamento a colpi di sedere, gancetto da due centimetri. Benvenuti negli anni ’80.
Ma, l’abbiamo detto e ripetuto ormai al parossismo, le pacche sulle spalle per il carattere battagliero e mai domo della squadra, da sole, non portano punti in classifica.
Soddisfazione ed apprezzamento per i giocatori, voglia di tornare in palestra per lavorare sulla bad execution, orgoglio per un palazzetto supportivo che spinge ed aiuta. Ma, anche, quattro sconfitte consecutive, cinque in tutto, generate sempre da situazioni di menomazione più o meno grave del roster, cui finora coach e squadra non sono mai riusciti a porre rimedio: il GM ed il Presidente ribadiscono, per l’ennesima volta, che il programma della squadra è quello di vincere ogni singola partita, e sono sinceri ed in buona fede.
Ci credono veramente, e come loro ci credono tutti i giocatori scelti per riuscirci. Il problema, però, è che in assenza di tali giocatori si ottengono tanti complimenti e l’onore delle armi (anch’esso sincero) dei coach avversari, ma le vittorie, in uno sport molto concreto fatto di numeri e statistiche, non possono arrivare.
Trieste ha giocato 3 partite su 10 (che costituiscono, in modo lapalissiano, ben il 30% della stagione finora disputata) senza tre americani fondamentali, altrettante senza due di loro e tutte e 10 priva di almeno un giocatore straniero.
In assenza di una base di conoscenza approfondita, nessuno può pensare di addentrarsi con sicurezza nelle cause di tali continue defezioni, al netto del carattere fortemente conservativo di molte di tali scelte.
Una certa dose di sfortuna è evidente, anche se non ci si può ovviamente limitare ad essa per spiegare il fenomeno. Il problema, però, è diverso: posto che la politica prudenziale della società sia quella che ormai chiunque a Trieste ha ampiamente metabolizzato, per vincere nonostante tutto ci si dovrebbe aspettare un piano B che coinvolga, di necessità virtù, la second unit biancorossa.
La fiducia riposta in essa da parte del coach, però, è riassumibile dai pochissimi minuti giocati mediamente dal pacchetto degli italiani (Candussi e Ruzzier esclusi), che dal canto loro, quando chiamati ad imprese sulla carta epiche come quella di frapporsi fra Brescia ed una sua vittoria facile, raramente estraggono dal cilindro prestazioni degne di nota, picchi di qualità capaci almeno temporaneamente di tamponare l’assenza di elementi decisamente insostituibili, limitandosi piuttosto a qualche breve compito da special team difensivo o ad un paio di minuti indispensabili per far rifiatare e reidratare un compagno.
Ed allora, se vincere ogni singola partita è realmente l’obiettivo di Trieste, il tempo delle decisioni dolorose pare ormai maturo.
Mike Arcieri ed il presidente Matiasic affermano di essere vigili per cogliere eventuali opportunità ormai da due mesi, però mai come ora attingere allo sterminato mercato americano, oltretutto terreno di caccia privilegiato di un GM abile nello scouting e dotato di conoscenze ramificate e profonde fra coach, procuratori, dirigenti di mezzo mondo, appare pressoché indispensabile, anche perchè nessuna fra le 16 squadre di LBA sta a guardare sotto questo punto di vista, elevando competitività e difficoltà di ogni singola sfida.
Certamente “comprare per comprare” non ha alcun senso anche perchè si rischierebbe di rompere inutilmente equilibri delicati e già rodati, d’altro canto attendere ancora a lungo porrebbe con ogni probabilità fuori portata il primo possibile obiettivo stagionale, la qualificazione alle F8 di Coppa Italia.
“Noi vogliamo giocare ancora a maggio e giugno, come l’anno scorso” è il mantra arcieriano: i precedenti sono sicuramente dalla sua parte, ma sull’altro lato della bilancia c’è il non trascurabile credito riconquistato da parte della piazza, quest’anno presente al palazzetto con una media superiore alle 5600 persone presenti a partita, e che per nessun motivo va disperso.
Le sconfitte di Napoli e Varese tengono la zona pericolosa ancora a debita distanza, ed è bene che rimanga così lontana.
A 10 punti, tra l’altro, i biancorossi sono affiancati da una corazzata come Tortona (sconfitta in casa da Treviso, che raggiunge le due in classifica), solo due punti sotto Milano e due punti sopra la sorpresa (in negativo) Venezia, a sua volta sconfitta in casa da Sassari.
La Pallacanestro Trieste da quest’anno, però, dichiara di voler guardare verso l’alto, tanto alto, e non alle sue spalle, e quindi il dilemma fra attesa ed intervento diventa il leit motif principale del club da qui alla fine dell’anno, un dilemma peraltro aggravato dai soli due visti da poter ancora spendere e dunque dalla precisione chirurgica sul tipo di giocatore da andare a cercare, ammesso che sia reperibile, per non sovrapporlo a spot già coperti ma anche per non privarsi della possibilità di intervenire quando servirà realmente in ruoli ora imprevedibili.
Domenica prossima è in programma la sfida al Palafiera di Bologna contro una Virtus che oggi ha dominato a Milano rinvigorita dalla cura Ivanovic, partita che Trieste affronterà certamente ancora senza Reyes e Brown (qualche speranza in più per Ross).
Poi questo stranissimo 2024 fatto di cadute e trionfi, ottimismo e pessimismo, contestazioni e popolarità, si concluderà con due sfide cruciali al Palatrieste contro Cremona e Reyer: per allora il vero volto di questa squadra, quello che dovrà portarla a giocare a maggio e giugno, dovrà necessariamente essere svelato.

(diritti riservati TSportintheCity)
Crediti: foto Panda Images

In collaborazione con TSportintheCity – articolo di Francesco Freni
PALLACANESTRO TRIESTE – TRAPANI SHARK: 93-98
Trieste: Bossi, Ross 10., Deangeli (k), Uthoff 12, Ruzzier 9, Campogrande, Candussi 9, Brown 25, Brooks 5, Johnson 7, Valentine 16, Paiano n.e.
Allenatore: Jamion Christian. Assistenti: Francesco Taccetti, Francesco Nanni, Nick Schlitzer.
Trapani: Notae 14, Horton 12, Robinson 17, Rossato 10, Alibegovic 8, Galloway 20, Petruccelli 11, Yeboah 5, Mollura (k) n.e., Pleiss 4, Gentile, Pullazi n.e.
Allenatore: Jasmin Repesa. Assistenti: Andrea Diana, Alex Latini
Arbitri: Rossi, Borgioni, Dori.

TRIESTE – Le parole di Jasmin Repesa al termine della partita fra le due neopromosse d’alta classifica riassumono lo spettacolo al quale i 6088 ufficialmente presenti al PalaTrieste si sono goduti in un vero saliscendi di emozioni durato quaranta minuti: “Partite come questa sono uno spot per la nostra pallacanestro“. Certo, i due punti hanno preso una direzione opposta a quella che avrebbero sperato almeno 5700 di quei 6000, ma è indubbio che la qualità esibita dai giocatori di entrambe le squadre e la pura gioia che donano agli amanti del basket le giocate che sono in grado di inventarsi ed eseguire ad un livello simile alla perfezione rendono questa partita una fra le migliori delle quali le volte lignee del palazzetto triestino siano mai state testimoni.
Certo, si potrà dire che i ritmi vorticosi, il ricorso spasmodico al tiro da tre punti o agli attacchi al ferro, con abbandono quasi totale dei floater o degli “arresto e tiro” dai quattro metri, dei giochi spalle a canestro in post basso, delle difese a zona, di un po’ tutte quelle soluzioni ad alto tasso tecnico tradizionale che i nostalgici del basket degli anni 70 e 80 ancora bramano, rendano queste partite un po’ tutte uguali ed alla fine noiose.
Trieste-Trapani è la dimostrazione che non è proprio così, o perlomeno non sempre: quando gli attori protagonisti sono di questo livello anche questa versione moderna del corri e tira risulta godibile ed emozionante.
Per dire, il 59-62 con il quale Reggio Emilia è passata al Taliercio probabilmente avrà provocato qualche sbadiglio in più all’osservatore neutrale, ma questo non fa che porre ulteriormente l’accento sull’incontrovertibile fatto che l’aggiunta di due realtà come Trieste e Trapani, così diverse fra loro, sia un grande valore aggiunto per l’intera Serie A.Fatta questa doverosa premessa, è però necessario analizzare come la squadra siciliana, oggi, sia evidentemente più avanti rispetto a quella triestina in quanto a completezza del roster, centimetri, chili e qualità quando conta.
E, forse, anche in una conduzione tecnica che, dopo otto partite, fa valere la sua maggiore esperienza in questa categoria.
La vittoria di Trapani, alla fine, non fa una grinza soprattutto per la sua capacità, non casuale perchè ripetuta più volte in passato, di saper incassare le fiammate avversarie, magari finendo sotto nel punteggio, per poi reagire in modo poderoso e letale sfruttando le proprie debordanti individualità, da Robinson a Notae e Galloway, che costituiscono uno “special team” incaricato di risolvere in autonomia le situazioni più ingarbugliate.
Trieste non può rispondere ad armi pari, essenzialmente perchè (a differenza di quanto afferma coach Christian in sala stampa più per allineamento corporate che per intima convinzione) la sua squadra è troppo corta, arriva negli ultimi cinque minuti di ogni partita in affanno perchè non può fare affidamento su tre giocatori che in modo evidente non godono della fiducia dello staff tecnico ed è ulteriormente accorciata dalla patologica e perdurante assenza di Justin Reyes. Un Justin Reyes che servirebbe a questa squadra come l’aria, per la sua capacità di ricoprire efficacemente almeno due ruoli, ma che non va a referto ormai da tre partite dopo aver saltato l’intera pre season e le prime quattro partite di campionato.
Nessuno pretende ovviamente che vengano pubblicate le radiografie delle sue cartilagini articolari e, conoscendo ed accettando la proverbiale riservatezza del club, nessuno pretende comunicazioni simili a quelle del coach di Trapani che descrive minuziosamente l’infortunio sofferto da John Petrucelli nel secondo tempo azzardandone anche una prognosi, d’altro canto, a questo punto, la questione non potrà essere ignorata ancora a lungo ed un po’ di chiarezza, a beneficio di tutti, andrà fatta.
Il campionato, dopo l’assestamento iniziale, ha cominciato infatti a restituire i veri rapporti di forza fra le squadre, e la verità è che a Trieste, pur potendo realmente competere quasi alla pari con chiunque, manca quella completezza che la possa rendere anche vincente oltre che bella da vedere nel lotto delle favorite: i due big match con Trento e Trapani avrebbero facilmente potuto finire in modo diverso più grazie alla reazione nervosa di una squadra incapace di arrendersi, ma l’evidenza incontrovertibile è che Trento e Trapani siano arrivate negli ultimi minuti decisivi con riserve di energia e di lucidità che gli stremati giocatori biancorossi, protagonisti di poderosi sforzi per recuperare situazioni compromesse, non hanno potuto pareggiare.
Lascia un po’ perplessi anche una certa rigidità nelle scelte dei quintetti, specie quando l’andamento dell’incontro ed il rendimento dei giocatori suggerirebbe di deviare dal piano partita scientificamente programmato per cavalcare prestazioni di giocatori che si rivelano maggiormente efficaci: il riferimento all’uscita sul più bello di Ruzzier, nuovamente protagonista della illusoria rimonta nella quarta frazione con due triple, un recupero ed un paio di assist, per far posto negli ultimi quattro minuti ad un Colbey Ross nuovamente fuori fase, braccato dalle fameliche guardie avversarie, inconcludente al tiro e farraginoso nella costruzione del gioco è naturalmente ben poco casuale, ma Coach Christian difende la scelta dimostrando se non altro granitica coerenza.
Anche rinunciare per quasi tutto il secondo tempo all’utilizzo di entrambi i cinque di ruolo, se da un lato priva la squadra di due giocatori che nel primo tempo erano stati fra i più positivi al tiro e come presenza sotto canestro, affidandosi interamente nel pitturato a Uthoff e Brooks, dall’altro costringe Repesa a mettere a sedere Pleiss ed utilizzare Horton con il contagocce e coincide, tutto sommato, con l’azzeramento del gap esterno che aveva raggiunto i 12 punti nel terzo quarto. Però, alla fine, il quintetto piccolo trapanese fa letteralmente a pezzi la difesa triestina indirizzando definitivamente il risultato e dunque la scelta, se vista esclusivamente in termini utilitaristici, ha pagato ben poco.
A proposito di esterni, il solito immenso Markel Brown non può continuare a fare pentole e coperchi per tutti e quaranta minuti: è lui infatti l’unico che mostra continuità di rendimento dall’inizio del campionato, mostra carattere e dà coraggio ai compagni. Ma avrebbe bisogno di spalle altrettanto continue, che al momento latitano.
Il riferimento a Denzel Valentine è naturale: l’ex Chicago per trenta minuti fa disastri, perde palloni banali, litiga ostinatamente con il ferro, è per la prima volta talmente sfiduciato da rinunciare addirittura a tiri aperti, salvo poi resuscitare nel momento di climax esaltandosi ed esaltando i 6000 a suon di triple che donano addirittura un illusorio vantaggio.
Pretendere un’interpretazione diversa dal “barba” significherebbe chiedergli di snaturare una intera carriera, per cui tanto vale rassegnarsi: Valentine è quel giocatore che ti farà maledire il momento che hai deciso di andare ad assistere ad una partita di basket tifando la squadra per cui gioca, per poi convincerti che la pallacanestro è il gioco più bello del mondo dieci minuti dopo.
Ma che le bocche da fuoco annunciate di Trieste abbiano le polveri bagnate è da ascrivere anche alla poderosa difesa messa in campo per la maggior parte del tempo (di certo quanto contava di più) da parte degli Sharks, che eccettuate alcuni fugaci momenti di amnesia, rimangono concentrati e piegati sulle gambe, riuscendo a non farsi battere praticamente mai negli uno contro grazie agli “show” dei suoi lunghi che generano costante superiorità fisica, ma anche riuscendo a sporcare ogni singola linea di passaggio in modo da rendere praticamente mai semplice la conclusione da lontano con tiri aperti.
Riuscire a realizzare comunque 93 punti contro questa organizzazione difensiva, oltretutto anche con percentuali al tiro sotto media, risulta comunque confortante, sebbene manchi, per l’appunto, lo step decisivo.
Per contro, è proprio la difesa dall’altra parte del campo, sotto il canestro triestino, a rivelarsi il vero ago della bilancia. Lo ammette anche un discretamente irritato Jamion Christian in sala stampa: quasi nulla di quanto era stato provato e riprovato in settimana è stato poi messo in pratica contro l’attacco di Trapani, troppi i tiri aperti da tre concessi, troppi i tagli dal lato debole facilmente pescati dal playmaker, troppe le seconde chance concesse a rimbalzo.
Alla fine, 97 punti concessi in casa significano sconfitta pressoché certa.
Il bicchiere, descritto così, sembrerebbe inesorabilmente mezzo vuoto. Naturalmente, non è così: Trieste, pur senza dare mai l’impressione di potersi impadronire definitivamente dell’inerzia anche sul +4 e palla in mano a tre minuti dalla fine, riesce infatti a non deragliare mai nemmeno nei momenti di maggiore difficoltà, durante i break di Trapani che la ricaccia anche a -12.
Questa squadra ha carattere e non si arrende mai, come del resto successo anche a Trento. Anch’essa, come gli avversari, quando necessario si affida all’estro dei suoi solisti, che per una volta (oltre al “barba”) rispondono al nome di Michele Ruzzier e Jarrod Uthoff, riuscendo a tenere sempre vivo l’incontro ed arrendendosi esclusivamente alla sirena finale.
I biancorossi si lanciano generosamente su ogni pallone, sgomitano e fanno a sportellate a rimbalzo, costringono gli avversari ad improvvisare, il loro linguaggio del corpo non tradisce mai frustrazione o rassegnazione.
E’ per questo che, anche dopo la seconda sconfitta consecutiva in uno scontro diretto, i biancorossi escono meritatamente fra gli applausi convinti del pubblico.
Ora arriva la pausa per la Nazionale che porta in dono quindici giorni quantomai necessari per rifiatare, recuperare energie ed accumularne altre nelle gambe in vista del rush finale del girone d’andata: arrivare fra le prime otto costituirebbe già un primo obiettivo stagionale minore, ed il fattore riserva di benzina comincia ad essere determinante.
Poi, trasferta in Sardegna, Brescia e Venezia in casa intervallate dalla sfida alla Virtus a Bologna.
Da Thanksgiving a Natale verrà definitivamente delineata la vera dimensione della Pallacanestro Trieste unopuntozero. Poi, si vedrà.

(diritti riservati TSportintheCity)
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In collaborazione con TSportintheCity – articolo di Francesco Freni

AQUILA BASKET TRENTINO – PALLACANESTRO TRIESTE: 76-68
Aquila Basket Trento: Ellis 5, Cale 2, Ford 21, Pecchia 6, Niang 9, Forray 8, Mawugbe 5, Lamb 10, Bayehe, Zukauskas 10.
Allenatore: P. Galbiati. Assistenti: F. Bongi, D. Dusmet.
Pallacanestro Trieste: Bossi n.e., Ross 8, Crnobrnja n.e., Deangeli (k) n.e., Uthoff 8, Ruzzier 2, Campogrande, Candussi 7, Brown 13, Brooks 9, Johnson 10, Valentine11.   Allenatore: J. Christian. Assistenti: F. Taccetti, F. Nanni, N. Schlitzer.
Arbitri: Mazzoni, Nicolini, Miniati.

TRENTO – Nulla da fare: nemmeno al sesto tentativo, pur con presupposti decisamente diversi dai primi cinque, la Pallacanestro Trieste riesce a violare il campo dell’Aquila.
C’è però da dire che in altri tempi, davanti ad una capolista in piena fiducia che imbrocca un secondo quarto in cui centra il canestro tirando anche dallo spogliatoio arrivando senza sforzo apparente sul +24, la Pallacanestro Trieste versione trasferta degli anni passati avrebbe probabilmente subito un’imbarcata epocale da cerchiare sugli annali.
Nulla di tutto ciò: la reazione arriva inevitabile e, nonostante la sconfitta, fa tirare un sospiro di sollievo a chi a metà partita vedeva già ballare fantasmi che quest’anno parevano spazzati via definitivamente.
C’è da dire che L’Aquila conduce le danze rimanendo in vantaggio dal primo all’ultimo minuto (con un paio di sporadici quanto minimi vantaggi triestini nel primo quarto), accendendo la miccia con un “and one” di Niang proprio sulla sirena del primo quarto che frutta il +4 dopo dieci minuti, miccia che poi fa deflagrare in tutta la sua potenza la forza d’urto della capolista sui due lati del campo.
Trieste ad un certo punto abbassa addirittura la testa sotto i colpi dell’avversaria, per la prima volta sembra arrendevole, arruffona, priva di idee, disorganizzata in attacco e presa a pallettate in difesa sia dall’arco che sotto canestro. In ultima analisi, la squadra ospite appare sfiduciata, ed è un linguaggio del corpo che con grande sollievo ci eravamo disabituati ad osservare in uomini in canottiera alabardata.
Il passivo supera abbondantemente i 20 punti, con la festa sugli spalti che preannuncia un noioso garbage time lungo venti minuti. Sembra un salto indietro negli anni, e non è una bella sensazione.
E invece, la parola resa non fa parte del DNA della squadra di Jamion Christian, il quale durante l’intervallo deve aver evidentemente sputato anche l’ugola. Trieste si ripresenta in campo riappropriandosi di quella faccia tosta e quella determinazione che avevano caratterizzato l’intero inizio di stagione.La squadra riesce ad approfittare sorniona di un atteggiamento un po’ altezzoso e prematuramente sicuro del risultato con il quale la squadra di Galbiati approccia la ripresa, ma c’è anche molta più concentrazione difensiva ed a rimbalzo a spiegare una rimonta che non viene completata, alla fine, principalmente a causa della serata decisamente storta in attacco.
Non c’è, dunque, da sorprendersi che Trieste ad un certo punto abbia nelle mani il possesso del +1 quando manca ancora una vita da giocare, riprendendo per la coda una situazione apparentemente disperata nonostante la partita difficile di Colbey Ross, quella decisamente inguardabile di Denzel Valentine e quella offensivamente anonima di Jarrod Uthoff.
Che poi i biancorossi si inceppino proprio sul più bello, commettendo errori anche banali che spianano la strada alla capolista anziché ribaltare definitivamente la contesa, sta nell’ordine delle cose: Trento può permettersi di schierare dieci giocatori tutti in doppia cifra in quanto a minuti di impiego, nessuno in campo, però, per più di trenta minuti.
Trieste, dal canto suo, ne schiera quattro per più di trenta minuti e tre che non si avvicinano ai 20 con Michele Ruzzier unico della pattuglia italiana a superare i 10 minuti. E’ evidente come la squadra di Galbiati si possa permettere di arrivare negli ultimi, decisivi, giri di lancetta con i migliori giocatori tutti in campo freschi e riposati, mentre Trieste debba per forza di cose pagare in lucidità al termine dello sforzo sovrumano che era stato necessario per ricucire l’intero gap nel punteggio. Che arrivino il fallo di sfondamento di Colbey Ross, il tiro aperto da tre ben costruito ma sbagliato da Brooks, il folle tiro da dieci metri di Valentine o la palla recuperata ed immediatamente restituita agli avversari da Uthoff, tutto sommato, è qualcosa che ti costa i due punti ma che ti puoi aspettare, e premia anche la squadra più lunga, più completa ed in ultima analisi più forte.
L’unico rammarico rimane quello di aver subito un passivo che avrebbe facilmente essere limitato con un po’ di attenzione nell’ultima azione, aspetto da non sottovalutare, come Trieste ben sa, in ottica differenza canestri.
A proposito di rotazioni corte, Jamion Christian rinuncia per l’ennesima volta in stagione alle prestazioni di Justin Reyes, che finora ha giocato solo un paio di scampoli di partita. Contro Trento l’apporto di un’ala capace di ricoprire più ruoli sarebbe servita come il pane, ed è una situazione che inevitabilmente si ripeterà nelle difficilissime partite che attendono Trieste da qui a Natale.
Non è in discussione il debito di riconoscenza che il basket triestino, Michael Arcieri -che lo considera alla stregua di un figlio- e Jamion Christian in testa, debbono al giocatore, così come non può essere messo in dubbio l’amore nei suoi confronti di una piazza che vorrebbe con tutto il cuore attenderlo fino al pieno recupero.
E’ però necessario essere pragmatici, specie se si volesse continuare a coltivare ambizioni elevate: la squadra, così com’è, è menomata perché almeno tre giocatori della second unit non godono evidentemente della fiducia del coach, e dunque si rende indispensabile l’impiego consistente di un sesto americano (del resto previsto dal costoso upgrade al 6+6 già effettuato).
Nel caso in cui l’oscuro malanno che affligge le ginocchia del portoricano abbia una diagnosi e soprattutto una prognosi precisa che preveda tempi accettabili nell’ambito della stagione, varrebbe ovviamente la pena aspettarlo. Altrimenti, permettergli di guarire completamente guardandosi al contempo intorno per tappare la falla potrebbe essere un’alternativa dolorosa ma necessaria.
Ma c’è ancora un po’ di tempo per evitare di arrivare a decisioni affrettate (ed abbiamo sperimentato nella passata stagione come tali decisioni non facciano parte del bagaglio culturale e professionale di Michael Arcieri), sebbene l’argomento non può non aver sfiorato la considerazione del GM, con tutta la delicatezza e la discrezione del caso.
La partita di Trento, alla fine, restituisce la consapevolezza di una distanza non certo incolmabile fra le due formazioni, che si aggiudicano due quarti ciascuna, con Trieste addirittura a prevalere 75-74 nella valutazione complessiva.
Le due squadre pareggiano la lotta a rimbalzo, grazie ad un Jayce Johnson sempre più convincente (alla fine fra i migliori dei suoi) ed all’esecuzione da manuale del tagliafuori da parte di Uthoff e Brooks. Trento prevale in modo netto solo nella percentuale da tre e nel numero di triple segnate, che alla fine scavano la differenza nel punteggio.
Ovviamente, se la miglior difesa del campionato riesce a limitare a 68 punti la produzione offensiva di uno dei migliori attacchi, va oggettivamente osservato come il punto di forza dell’Aquila abbia funzionato a dovere, mentre quello di Trieste abbia fallito la missione.
Una sconfitta, comunque, che se da un lato costa due punti in classifica, dall’altro è tutto sommato accettabile e mitigata dalla voglia di reagire dimostrata e la capacità di recuperare in una situazione apparentemente compromessa in un ambiente che alla fine festeggiava come dopo la conquista di un trofeo, a testimonianza di quanto temuta fosse questa partita e di quanto spavento Trieste sia riuscita a generare nell’ultimo quarto.
Ora un po’ di riposo per riprendersi dalla lunga trasferta e lavare via le scorie negative che ogni sconfitta si porta dietro, e poi sarà tempo di preparare un’altra sfida affascinante, quella mancata nei playoff della passata stagione di A2, incrocio evitato che ha permesso a Trapani e Trieste di presentarsi entrambe con i galloni di matricole terribili ai nastri di partenza in Serie A.
La Trapani di Antonini e Repesa è forse ancora più completa e potenzialmente più temibile di Trento, però domenica prossima si giocherà in un PalaTrieste che mai come in questa occasione dovrà fare la differenza.

(diritti riservati TSportintheCity)
Crediti: foto profilo Facebook ufficiale Pallacanestro Trieste

In collaborazione con TSportintheCity – articolo di Francesco Freni
PALLACANESTRO TRIESTE – OPENJOBMETIS VARESE: 107-81
Pallacanestro Trieste: Bossi 3, Ross 10, Reyes n.e., Deangeli (k) 2, Uthoff 9, Ruzzier 6, Campogrande 3, Candussi 13, Brown 20, Brooks 10, Johnson 10, Valentine 21. Allenatore: Jamion Christian. Assistenti: Francesco Taccetti, Francesco Nanni, Nick Schlitzer.
Varese: Akobundu-Ehiogu 10, Harris 8, Alviti 5, Gray 4, Librizzi 9, Virginio n.e., Turconi n.e., Assui, Fall, Brown 14, Hands 12, Johnson 19.
Allenatore: Herman Mandole. Assistenti: Marco Legovich, Federico Renzetti.
Arbitri: Grigioni, Valzani, Marziali.

Prima del risultato. Prima delle statistiche, prima degli aspetti tecnici che consentono una vittoria larghissima ed una posizione in classifica che per una neopromossa sembra una follia, c’è da osservare l’aspetto più evidente, più eclatante, se vogliamo più esaltante della Pallacanestro Trieste targata Arcieri/Christian: questi ragazzi divertono, divertono parecchio, ma ancora prima si divertono, godono nel giocare insieme, si esaltano per i successi dei compagni, ed esaltandosi esaltano il pubblico, che da inizialmente prudente si è trasformato in convinto e da convinto è ora totalmente conquistato.
Un circolo virtuoso che nasce dai risultati, naturalmente, ma i risultati, considerato anche il calendario non certo agevole riservato alla Pallacanestro Trieste in questo primo scorcio di stagione, non arrivano di certo per caso.
Le vittorie aiutano, certo, però in queste settimane di mania cittadina collettiva per la pallacanestro il club sta accumulando un tale tesoretto di fiducia e popolarità che quando arriveranno – e arriveranno – le difficoltà e le sconfitte, questi ragazzi saranno comunque incoraggiati e sostenuti, aiutati quasi fisicamente ad uscirne.
Contro Varese, partita che alla vigilia, nonostante, o forse proprio a causa della dipartita di Nico Mannion presentava qualche insidia soprattutto dal punto di vista dell’approccio mentale, Trieste non fa prigionieri già dal primo minuto.
Il defensive coordinator, in settimana, evidentemente ha fatto fare i compiti ai suoi ragazzi: dopo una prestazione ed una vittoria netta a Treviso, nella quale l’unico aspetto potenzialmente capace di far storcere il naso era stato l’atteggiamento difensivo talvolta poco intenso e distratto, la squadra torna ad abbassarsi sulle gambe difendendo in modo asfissiante dalla prima palla a due, anticipando ogni singola linea di passaggio, approfittando in modo esiziale sia della netta superiorità fisica di Colbey Ross su Librizzi, unico playmaker di ruolo rimasto attualmente a disposizione di coach Mandole, sia della superiorità numerica dei lunghi triestini, che blindano il pitturato nemmeno fosse Fort Knox.Contro una squadra che di buono aveva solo il fatto di essere prima in campionato per punti segnati, specie nei primi tempi, Trieste chiude ogni soluzione per tiri da tre comodi, con Hands, Harris e lo stesso Librizzi a tirare poco e male, ed il match winner della partita contro Pistoia Davide Alviti (fermato in settimana dall’influenza ma impossibile da lasciare a riposo) a non imbroccare un solo tiro da tre per tre quarti di partita.
Nella metà campo difensiva, già in partenza tallone d’Achille per una squadra che arrivava a Trieste con una media di 102 punti subiti a partita, la notte per la squadra di Mandole è ancora più fonda, complice anche lo stato di grazia dei due ex di lusso, Colbey Ross (subito limitato dai due falli commessi e messo a riposare per più di metà del primo tempo) ed un inarrestabile Markel Brown liberi di seminare letteralmente il panico per imprevedibilità delle iniziative e precisione nelle conclusioni.
Al trio, naturalmente, non può rinunciare ad unirsi il chitarrista de noantri, quel mix di genio, follia, tecnica e divertimento che risponde al nome di Denzel Valentine: il barba è un alieno per la difesa lombarda, esegue gli uno contro uno andando ad attaccare il ferro con una semplicità che sembra quasi noncuranza, arrivando al sottomano come se si fosse ancora nel riscaldamento prepartita.
Se per qualche motivo la difesa avversaria azzecca il cambio giusto e ne impedisce la penetrazione, arresta il palleggio in una frazione di secondo e fa partire bombe incurante della distanza dal canestro, tendenzialmente centrandolo.
Detta così, sembrerebbe la descrizione del solito individualista narcisista mangiapalloni. Oddio, il buon Denzel un po’ narcisista non si può negare che lo sia, ma se un giocatore risulta anche il miglior assistman della serata (con un paio di palloni fatti passare come di consueto dietro la schiena, sopra la testa o sotto le gambe), nonché il miglior rimbalzista della squadra, allora ci si deve arrendere all’evidenza di quanto i suoi detrattori milanesi abbiano preso un clamoroso abbaglio definendolo un bluff.
Vederlo a fine partita circondato da un nugolo di bambini adoranti in cerca di un cinque, un selfie o un autografo riempie di per sé il cuore.
Solita partita in pantofole per tutti gli altri. A Michele Ruzzier viene concesso un maggiore minutaggio a causa dell’uscita prudenziale di Ross, e Michele risponde con una partita giudiziosa ed ordinata, in cui detta i tempi giusti, spinge a 100 all’ora quando c’è da correre in contropiede, rallenta quando c’è da ragionare e spegnere le -rare- fiammate di Varese.
Uthoff è come sempre un ice-man tuttofare di una efficienza indispensabile per l’economia della squadra, Brooks, anche se sbaglia il primo tiro da quattro partite a questa parte (tirando comunque 4 su 5 da due e 2 su 2 ai liberi) dimostra di possedere un clamoroso tempismo a rimbalzo e nel tap in, che gli permette di convertire in punti gli errori al tiro dei compagni. E poi, anche lui, come Valentine, è dotato di quella innata capacità istrionica capace di infiammare la folla. Johnson sembra meno a suo agio rispetto a Treviso, ma va comunque comodamente in doppia cifra, sgomita, cattura rimbalzi, ci prova anche da post basso anche se la presenza di Akobundu-Ehiogu è fisicamente intimidatoria, però la squadra di Christian è scaltra nello sfruttare ogni singolo mismatch che porta un piccolo a difendere su un lungo: lo fa più volte con Brooks, Uthoff, Candussi, lo stesso Johnson.
Le cifre, come detto, in una partita del genere arrivano dopo il pathos all’interno del palazzetto, dopo l’atteggiamento e l’intensità, dopo il divertimento e lo spettacolo. Ma spiegano una vittoria di 27 punti più di una superflua cronaca che si ridurrebbe a raccontare un vero monologo, con un divario che si amplia progressivamente e non lascia via di scampo a Varese, anche perchè l’iniziativa e l’inerzia della partita non sfuggono letteralmente mai di mano ai giocatori triestini.
Il dato più eclatante: 135 a 77 la valutazione finale complessiva. Come prevedibile, Trieste domina a rimbalzo: 49 a 32 il dato finale, con addirittura 16 rimbalzi in attacco che consentono seconde e talvolta terze chance ai tiratori biancorossi.
Certo, la squadra di Christian ne concede 9 sotto il proprio canestro, ma si tratta quasi sempre di rimbalzi lunghi o dalle traiettorie fortunose, più che frutto di tagliafuori o distrazione della difesa. Trieste tira con il 54,5% da due e addirittura il 51% da tre, con ben 16 triple realizzate su 31 tentativi (Varese tira con il 24% da oltre l’arco, realizzando solo 8 triple, esattamente la metà degli avversari).
Il gioco corale dei ragazzi di Christian è testimoniato dai 22 assist -contro i 12 di Varese- segno che le esasperate individualità che costituivano il maggiore timore della vigilia i campionato sono incastonate in un sistema che coinvolge ogni singolo giocatore impiegato.
Certo, ci sono ancora numeri da limare: il 61% ai tiri liberi, su 18 tentativi, peggiora ancora il poco esaltante ultimo posto fra le 16 di Serie A.
Le palle perse sono metà del solito, ma rimangono comunque in doppia cifra, 12, che non pesano solo perchè Varese ne perde altrettante.
In ultima analisi, il brivido maggiore nei 40 minuti arriva dalla scena di Markel Brown zoppicante portato a braccia fuori dal campo ed immediatamente ritiratosi negli spogliatoi. Brown rientrerà in campo dopo pochi minuti, ma spaventi del genere sono in grado di devastare le coronarie degli spettatori più sensibili.
Infine, una nota più lieta arriva dagli Italiani. Ruzzier e Candussi sono protagonisti di regolari rotazioni dall’inizio di campionato, Campogrande sta trovando maggiore spazio a suon di personalità e prestazioni convincenti sia in attacco che, soprattutto, in difesa.
Complice ovviamente il divario incolmabile ed il calo fisico e morale di Varese, Trieste finisce negli ultimi cinque minuti con un quintetto che non si era permessa di schierare nemmeno nei playoff di A2: Ruzzier, Candussi, Campogrande, Bossi e Deangeli trovano il modo di cercarsi, trovarsi, dare spettacolo con assist sopra la testa, bombe, palle recuperate, rimbalzi, che ampliano ulteriormente il gap davanti ad avversari che cercano di non mollare e tengono in campo i migliori.
Alla fine andranno a referto in 11 su 11 scesi in campo (già, perchè il dodicesimo, Justin Reyes, non si alza dalla panchina, rinviando ancora una volta l’esordio della squadra al gran completo), segno anche del piacere che ognuno trova nel coinvolgere, oltre sé stesso, anche i compagni.
Al netto di minuti spesi forse più per concedere le meritate standing ovations ai protagonisti assoluti, sono minuti di qualità, giocati ad alta intensità ed in grado di restituire fiducia e consapevolezza che torneranno utili più avanti nel campionato.
Chiusa la fase di rodaggio della stagione, quella nella quale era magari più probabile approfittare di squadre più attrezzate ancora in assestamento o distratte dall’inizio della coppa europea di turno, o più semplicemente era possibile sorprenderle a sottovalutare la neopromossa di turno, ora gli equilibri si assesteranno ed i veri valori del campionato tenderanno ad emergere.
Le prossime partite diranno molto a questo proposito: i match contro Trento (ancora a punteggio pieno dopo aver sepolto Milano), Trapani e Brescia (che si sono incontrate nell’ultima giornata con la travolgente vittoria dei siciliani) -intervallati dalla difficile trasferta a Sassari- saranno un banco di prova determinante, chiuso il quale si potranno anche cominciare a fare calcoli in prospettiva sul primo obiettivo minimo della stagione, la conquista delle Final Eight di Coppa Italia. Grazie a questa vittoria ed al record di 5-1 Trieste, dall’alto dei suoi 10 punti, si iscrive con pieno merito e con tutto il diritto a questo club delle migliori, e giocherà da temuta pari contro alcune fra le favorite della vigilia.
Brucia parecchio dover finire di descrivere l’esaltante pomeriggio di pallacanestro vissuto all’interno del PalaTrieste con ciò che è accaduto all’esterno.
Proprio nei minuti nei quali Michael Arcieri, con respiro internazionale, lodava il pubblico triestino per aver applaudito a più riprese gli avversari, a qualche metro di distanza, all’esterno, alcuni violenti, lasciati uscire prima dal palazzetto non si sa rispettando quale norma di sicurezza, pensano bene di sfogare la frustrazione per la rumba subita in campo ed il loro stanco campanilismo anni ’80 (dimostrando che lo striscione di sabato scorso a Treviso non ha insegnato nulla), prendendo a sprangate, pugni e tiri di fumogeni e cassonetti famiglie, bambini, persone ignare anche della loro esistenza, figurarsi della supposta rivalità, mandandone qualcuno all’ospedale.
Al netto dell’ennesima conferma dell’assenza di quoziente di intelligenza nel cervello di tali imbecilli (del resto prendersela con loro è come dare colpa alle nuvole perchè piove), c’è da chiedersi come sia possibile che in una città, unica nel panorama cestistico italiano, costretta a mantenere un cuscinetto di posti -e biglietti- invenduti per sicurezza anche in assenza di tifoserie avversarie annunciate, proprio questa banda di teppistelli non sia stata scortata, isolata, messa in condizione di non nuocere, bensì lasciata libera di scorrazzare in via Flavia per una ventina di minuti.
Per quanto ci riguarda, tutta la nostra solidarietà va alle persone ed ai rappresentanti delle forze dell’ordine loro malgrado coinvolte, soprattutto ai feriti.
Loro, certamente, il prossimo big match casalingo con Trapani se lo godranno, guardando le altre dall’alto verso il basso. I vigliacchi incappucciati potranno farlo a casa loro o sono gemellati pure con i siciliani?

(diritti riservati TSportintheCity)
Crediti: foto Panda Images

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In collaborazione con TSportintheCity – articolo di Francesco Freni
NUTRIBULLET TREVISO – PALLACANESTRO TRIESTE: 95-100
Nutribullet Treviso: Bowman 8, Harrison (k)16, Torresani 3, Mascolo 14, Martin n.e., Mazzola, Mezzanotte 2, Olisevicius 26, Paulicap n.e., Macura 9, Alston 17.
Allenatore: Francesco Vitucci. Assistenti: Alberto Morea, Mattia Consoli.
Pallacanestro Trieste: Ross 30, Uthoff 13, Brown 18, Ruzzier 9, Brooks 6, Deangeli (k), Johnson 10, Reyes 6, Valentine n.e., Bossi n.e., Candussi 5, Campogrande 3.
Allenatore: J. Christian. Assistenti: F. Taccetti, F. Nanni, N. Schlitzer.

TREVISO – Può un gruppo rock portare a termine un concerto mandando in visibilio il suo pubblico anche senza il chitarrista? A quanto pare, può.
Trieste, per la quinta volta in cinque partite, scende in campo incompleta: Ross e Brooks, che dovevano essere in dubbio, alla fine si rivelano due fra i principali protagonisti della vendemmia di Prosecco, in compenso a rimanere – non del tutto inaspettatamente – seduto per 40 minuti (dopo aver svolto regolarmente il riscaldamento con i compagni) stavolta è Denzel Valentine.
Ma, ancora una volta, il gruppo riesce ad assorbire il colpo e a non snaturare in alcun modo la sua filosofia di pallacanestro, fatta di grande velocità, infinite soluzioni offensive, solidità mentale e perfetto equilibrio fra individualità e lavoro di gruppo.
Il rovescio della medaglia, probabilmente connaturato a questo tipo di basket, è costituito dalla marea di palle perse (22 in tutto, 9 solo dal top scorer Colbey Ross) che non consentono di uccidere la partita neanche con l’inerzia saldamente in mano, concedendo rapidi contropiede o conclusioni solitarie da oltre l’arco.
Un aspetto che sta divenendo una pericolosa costante, una costante sulla quale si potrà senz’altro lavorare ma che difficilmente migliorerà in modo significativo nel corso della stagione proprio perché scarto di lavorazione di una pallacanestro giocata costantemente a 100 all’ora.
Un’altra costante in questo primo scorcio di campionato è il predominio a rimbalzo, un predominio che Trieste non concentra esclusivamente nelle mani dei lunghi di ruolo ma distribuisce in modo uniforme nel roster, segno che la mentalità sia quella di gettarsi sempre e comunque a raccogliere i palloni sputati dal ferro: a Treviso finisce 29-13, un predominio schiacciante che non può evidentemente essere spiegato esclusivamente con l’assenza di Paulicap sotto canestro.
A proposito di predominio nel pitturato: conforta la crescita costante di Jayce Johnson, sempre più consapevole e convinto, agonisticamente più feroce e dunque più credibile agli occhi dei compagni che ora lo coinvolgono maggiormente in attacco, innescandolo sul pick and roll o servendolo in movimento sul taglio in mezzo all’area.
Cresce anche l’intensità del gioco di Reyes, ancora lontano da uno stato di forma ottimale ma visibilmente in grande progresso dal punto di vista fisico: per un giocatore che fa dell’esuberanza atletica il suo punto di forza, il recupero del ritmo partita è forse l’aspetto più importante, una volta recuperato quello la squadra di Christian disporrà di una addizione di lusso.
Addizione quantomai fondamentale alla luce dello scarsissimo impiego, a dire la verità quasi nullo, del pacchetto degli italiani (Candussi e soprattutto Ruzzier esclusi), che rende ancora corte le rotazioni, specie in assenza di pedine americane fondamentali.
Sono probabilmente più dei 300 dichiarati i tifosi triestini che seguono la squadra nella Marca, segnale piuttosto indicativo su che tipo di entusiasmo susciti questa squadra per la sua mentalità vincente, per la sua “cazzimma”, per lo spirito sempre in equilibrio fra combattimento e divertimento.
L’accoglienza del Palaverde è, come di consueto, non particolarmente amichevole, sebbene gli slogan offensivi vintage, triti e ritriti, risultino particolarmente patetici e fuori dal tempo.
La curva triestina, peraltro, risponde con una coreografia che celebra i sette decenni dal ritorno all’Italia, mettendo fine al confronto a distanza con un evidente KO tecnico.Ne consegue un clima da corrida sugli spalti ed anche in campo, in cui a risultare maggiormente penalizzati risultano proprio quelli che da questo derby avevano più da perdere: i giocatori di Treviso sono nervosissimi, arrivano addirittura ad insultarsi a vicenda, accolgono ogni errore, ogni fischio arbitrale, finanche ogni cambio non gradito come un’offesa personale, entrando in un loop autodistruttivo che alla fine ne causa il definitivo deragliamento.
Ky Bowman e Deangelo Harrison, dieci falli in due, escono nel momento più importante con il punteggio teoricamente ancora in bilico, e da quel momento, a tre minuti dal termine, per Treviso si spegne definitivamente la luce, anche perchè Trieste inizia razionalmente a giocare con il cronometro, al netto di un paio di nefandezze (palle perse e rimesse dal fondo nelle mani degli avversari) che per fortuna risultano indolori.
I biancorossi di Jamion Christian, in questo clima, riescono dal canto loro a metabolizzare la pressione ambientale trasformandola in energia positiva: rimangono freddi e concentrati, cercano di ragionare in ogni situazione, si distraggono troppo spesso in difesa -i primi due quarti con media di 28,5 punti incassati sono eccessivi anche in trasferta- ma tendenzialmente eseguono il piano partita in modo letale quando diventa indispensabile mantenere il sangue freddo.
In assenza di Valentine manca il tocco di imprevedibilità e creatività all’attacco triestino, ma il roster di Trieste può vantare due giocatori che magari non offrono prestazioni appariscenti, quasi mai accumulano bottini di punti che li mette in evidenza al primo colpo d’occhio, ma che invece valgono quanto l’oro zecchino: Jarrod Uthoff non lascia passare un incontro senza sorprendere chiunque lo veda giocare sul fatto che non sia stato notato prima dai top team europei.
E’ l’unico che mantiene aggressività costante in difesa (altre due stoppate per lui, oltretutto piazzate nel finale), soffre l’inverosimile solo quando coach Christian rinuncia ai due numeri 5 per affidarsi solo a lui e Brooks per presidiare il pitturato (almeno stavolta il reparto lunghi avversario deve rinunciare al centro titolare, assente per infortunio), ma piazza due bombe in rapida sequenza capaci di abbattere le certezze di Treviso proprio quando la squadra di casa, nel terzo quarto, stava accumulando un vantaggio non ancora decisivo ma capace di innescare pericolosamente il Palaverde come una polveriera.
Uthoff somma tante piccole cose eseguite alla perfezione nei 32 minuti in campo, una somma che alla fine recita 23 di valutazione, la più alta dell’intera squadra. L’altro elemento imprescindibile è un Jeff Brooks alla quarta partita consecutiva senza errori dal campo, capace di imbrigliare definitivamente l’unico terminale offensivo trevigiano in grado di mantenere costante il suo rendimento, quell’Osvaldas Olisevicius che fino alla “cura Brooks” imperversava da ogni parte del campo. Il peso dell’assenza di Brooks domenica scorsa contro Reggio Emilia appare in tutta la sua evidenza al Palaverde: con lui in campo, il saldo plus/minus (cioè il risultato della “mini partita” giocata nei 24 minuti spesi sul parquet dall’ex Reyer) recita +15.
La partita vive di strappi e contro strappi, con Treviso che si illude ed illude il proprio pubblico con il solito inizio arrembante, nel quale accumula meritatamente un vantaggio che viaggia verso la doppia cifra (senza raggiungerla), prima che Trieste si scuota dal torpore e ricucia in un lampo il gap.
Da lì in poi, alla fine del primo quarto, la partita diventa spettacolare per lo spettatore neutrale, con gli attacchi che prevalgono nettamente sulle difese e vantaggi alternati ma mai, nemmeno illusoriamente, rassicuranti.
Ma è anche una sfida a chi mantiene più a lungo i nervi saldi, e come detto Treviso non ha la razionalità e la calma nel suo DNA: del resto i cavalli di razza come Bowman e, soprattutto un agitatissimo Harrison possono magari far vincere partite grazie a giocate dal tasso tecnico incalcolabile, ma sono difficilmente imbrigliabili in un disegno generale che cerchi di asservire le loro prestazioni al bene della squadra anziché risultare fine a sé stesso.
Dal canto loro, Colbey Ross e Markel Brown sono l’esatta antitesi: poker face a tratti irridente, concentrati e letali, calmi come un cobra prima di morderti. Ad iniettare saggezza ci pensano anche Brooks e Uthoff, il risultato, nonostante i ben 95 punti incassati, ne è la diretta conseguenza. Si finisce con Jamion Christian osannato ed abbracciato (proprio fisicamente) dalla curva.
Ci è voluto tempo, tanta resistenza, tanta pazienza reciproca, tantissima capacità e voglia di capirsi, tanta resilienza, per usare un termine caro a lui ed a Mike Arcieri, ma alla fine l’onestà intellettuale del coach è divenuta il suo tratto più apprezzato dalla piazza, che ora lo ha definitivamente adottato, e questa è una grande vittoria del club che va oltre la vittoria sul campo.
Il sabato della LBA non si è limitato al derby del Palaverde: Tortona si impone sul difficilissimo campo di Trapani (dando ulteriore valore alla vittoria di Trieste proprio a Casale due settimane fa), Milano, dopo i disastri di Eurolega, torna a vincere in campionato imponendo l’ennesimo stop ad una Napoli ancora ferma al palo, la Virtus vince a Cremona come da pronostico, e Brescia vince a Reggio Emilia confermandosi, assieme a Trento, la squadra forse più continua nel primo scorcio di stagione.
Domenica prossima si torna al PalaTrieste per affrontare una sfida contro Varese che assume molteplici motivi di interesse: Mike Arcieri contro un passato di non facile interpretazione (specie nel suo epilogo), tre protagonisti della stagione “degli immarcabili” ora sulla sponda triestina, il grande dubbio sulla legittimità di una salvezza “regalata” ai lombardi in cui a fare le spese fu proprio la squadra guidata dall’attuale assistente allenatore della OpenJobMetis Marco Legovich.
Una Varese che arriverà profondamente rivista, con il ritorno in corsa di Jaron Johnson e dell’ex Trieste Skylar Spencer (che nella famigerata stagione giocavano sui lati opposti della barricata). In compenso, quasi certamente, Varese rinuncerà a Nico Mannion.
Ma, indipendentemente da quelli che saranno gli avversari, Trieste giocherà la sua partita, con l’unica incognita sulla possibilità o meno di scendere in campo, per la priva volta dal 31 agosto, finalmente al completo.

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Crediti: foto profilo Facebook ufficiale Pallacanestro Trieste

In collaborazione con TSportintheCity – articolo di Francesco Freni
PALLACANESTRO TRIESTE – UNAHOTELS REGGIO EMILIA: 85-97
Pallacanestro Trieste: Bossi 4, Ross n.e., Reyes 7, Deangeli (k), Uthoff 24, Ruzzier 10, Campogrande, Candussi 3, Brown 11, Brooks n.e., Johnson 13, Valentine 13.  Allenatore: J. Christian. Assistenti: F. Taccetti, F. Nanni, N. Schlitzer.
Reggio Emilia: Barford 12, Gallo n.e., Winston 28, Faye 13, Gombauld, Smith 9, Uglietti 2, Fainke n.e., Vitali 12, Grant (k) 7, Chillo 3, Chetham 11.
Allenatore: Dimitrios Priftis. Assistenti: Federico Fucà, Giuseppe Di Paolo.
Arbitri: Sahin, Galasso, Capotorto.

TRIESTE – Alla fine, vince l’influenza. Per carità, Reggio Emilia è una gran bella squadra, completa in ogni reparto, con un paio di individualità che la collocano ai limiti dell’eccellenza, e si impone con assoluto merito per aver saputo dosare le forze, ruotare gli uomini ed eseguire i giochi in attacco nel modo più adeguato al momento giusto approfittando delle difficoltà e degli errori triestini nella prima partita nella quale la squadra di Christian evidenzia sbavature difensive inedite e non riesce quasi mai ad imporre il suo gioco in attacco.
Però non si può certo ignorare il fatto che per un “mezzo” Justin Reyes in più nel motore Christian rinuncia a Colbey Ross (leggero risentimento ad un polpaccio per lui) e Jeffrey Brooks (vittima di uno stato influenzale in settimana), cui si aggiunge ad inizio ripresa anche Francesco Candussi uscito e non più rientrato all’apparenza a causa di un guaio muscolare alla gamba destra.
I biancorossi di casa hanno seriamente rischiato di dover rinunciare anche a Jarrod Uthoff per un malanno patito in settimana, ma l’impressione è quella che per intaccare la tempra dell’uomo dell’Iowa sia necessaria più una carabina che un virus.
I suoi 24 punti conditi da 11 rimbalzi, due stoppate ed una prestazione difensiva che lo ha visto fermare giocatori avversari in ogni ruolo, per un 34 di valutazione finale, è il commento più eloquente sulla sua determinazione.
Trieste, come del resto ampiamente dimostrato durante la pre season, è però perfettamente in grado di reagire con raziocinio a difficoltà ed assenze, riassestando le rotazioni e tirando fuori soluzioni nuove (e uomini della panchina) tenendo sempre alta l’intensità e l’atteggiamento aggressivo in ogni singola azione difensiva affidandosi magari maggiormente a qualcuna delle individualità “superstiti”.
L’impressione, però, è che contro Reggio Emilia le assenze siano state decise proprio in prossimità della palla a due -del resto sia Brooks che Ross avevano regolarmente svolto il riscaldamento- e che talune rotazioni siano state dettate più dall’improvvisazione sul momento che da un piano partita di emergenza.
Da aggiungere che finora in campionato Trieste ha fatto ruotare sette uomini e mezzo, e perciò ci si poteva attendere un principio di affaticamento generale, specie contro una squadra fisicamente debordante come Reggio Emilia.
Ciò nonostante, finché l’acido lattico concede alle gambe la massima reattività e di conseguenza al cervello la massima lucidità, la squadra di Jamion Christian riesce ad inceppare l’attacco di Reggio Emilia soprattutto nel primo quarto, correndo ad un ritmo forsennato e mantenendo una percentuale nel tiro da tre ben oltre il 60% con un numero di tiri che supera ben presto la decina e toccando ad un certo punto addirittura i 12 punti di vantaggio.Ma la coperta è, inesorabilmente, cortissima. Fa il suo esordio in campionato Stefano Bossi, che realizza una tripla sulla sirena del ventiquattresimo secondo ma soffre enormemente negli uno contro uno mettendo inesorabilmente in ritmo le guardie emiliane, Winston su tutti.
Entrano per qualche minuto anche Deangeli e Campogrande, che però vengono coinvolti pochissimo in attacco -con il secondo che rifiuta anche un paio di “suoi” tiri aperti- e sembrano intimiditi in difesa.
Reyes, il cui impiego era stato probabilmente programmato già per questa partita ma con un minutaggio decisamente minore, è costretto agli straordinari anche sotto canestro, mostrando però una tenuta fisica ed uno stato di forma del tutto approssimativi (anche lui, peraltro, pare sia stato fermato come i compagni in settimana da un qualche malanno fisico che gli ha impedito di allenarsi con continuità in un momento cruciale per il suo recupero), sebbene per come si muove con sicurezza sulle gambe non mostri di essere particolarmente preoccupato dello stato delle ginocchia convalescenti.
Cresce a vista d’occhio, invece, la convinzione di Jayce Johnson, così come la consapevolezza di ciò che gli viene chiesto sul campo.
Il californiano rimane grezzo dal punto di vista tecnico, macchinoso nelle conclusioni ma compensa tali difetti con un atteggiamento aggressivo che gli permette di arginare la debordanza atletica di Faye (anche lui non certo un diamante dal punto di vista tecnico), di catturare rimbalzi con tempismo e senso della posizione ed in generale di mostrare quella faccia cattiva che piace tantissimo alla gente, che infatti gli tributa scroscianti applausi più per l’atteggiamento che per l’efficacia effettiva.Le cattive notizie arrivano già a partire dal secondo quarto, durante il quale il pitturato triestino viene attaccato con più continuità dagli esterni emiliani, che sfruttano gli “show” che portano Johnson lontano da canestro per attaccare soprattutto dal lato debole ed iniziano anche ad alzare notevolmente la percentuale da oltre l’arco.
Trieste regge in attacco, toccando quota 50 all’intervallo, ma si ha la nettissima impressione che l’inerzia di una partita che vede Reggio Emilia realizzare trenta punti in dieci minuti sia totalmente nelle mani degli ospiti. La squadra di Christian raschia sul fondo del barile dell’energia ed inizia la ripresa in modo spumeggiante sorprendendo avversari che ripiombano nuovamente ad otto punti di distanza, ma è un fuoco di paglia. Valentine non è il chitarrista di Casale e sbaglia anche un paio di tiri aperti, Markel Brown si spegne alla distanza, Michele Ruzzier abbassa definitivamente le percentuali che gli avevano permesso nella prima metà di partita di tornare ad essere il terminale offensivo pericolosissimo dei playoff. Il solo Uthoff è onnipresente: si tuffa sui palloni vaganti, tira fuori magie dalla spazzatura, difende come un forsennato, ma non può bastare, anche perchè Reyes fa poco più che camminare in campo diventando insolitamente timido anche nelle conclusioni, che evidentemente non sente ancora nelle sue corde senza la sicurezza da killer che gli appartiene. Quando Johnson fallisce una schiacciata imperiosa in entrata subendo un evidente contatto (ingnorato dagli arbitri) che lo costringe a tornare negli spogliatoi per una medicazione e contemporaneamente il suo solo backup Francesco Candussi esce zoppicando presumibilmente per un risentimento muscolare ad una coscia, la luce si spegne definitivamente. Johnson rientrerà, ma non incide e viene accantonato definitivamente. Trieste finisce la partita solo con gli esterni e con Uthoff e Reyes a tentare di presidiare il pitturato, però è decisamente troppo poco, anche perchè se tenti con gli esterni di arginare i lunghi sotto canestro lasci chilometri di vantaggio alle guardie avversarie, e viceversa quando tenti di difendere forte sul perimetro: Reggio Emilia riesce a prendersi tre possessi di vantaggio e da quel momento inizia a giocare anche con il cronometro, innervosendo gli avversari che con il passare dei minuti scelgono di affidarsi esclusivamente al tiro da tre, che però si inceppa ostinatamente senza più riapparire fino alla fine. Cheatam, Vitali e Winston sono delle sentenze da fuori, e la partita scivola via senza possibilità di essere più riacchiappata per la coda. Finisce con un giallo figlio di un evidente quanto grave errore arbitrale: partita quasi finita, chiaramente nelle mani di Reggio Emilia che però, giustamente, spinge fino all’ultimo secondo disponibile per prendersi quanti più di punti di vantaggio sia possibile in vista della partita di ritorno e della possibilità di dover difendere la differenza canestri (del resto, la differenza canestri con Reggio Emilia decretò di fatto la retrocessione due anni fa, elevando all’ennesima potenza l’importanza di tale particolare). Mancano una decina di secondi, rimessa dal fondo di Trieste che sta per superare la linea di metà campo, ma con almeno 7 secondi ancora sul cronometro suona la sirena per un’evidente errore del tavolo. Qualcuno si ferma, gli arbitri si girano, la palla continua a viaggiare finendo nelle mani di Campogrande che peraltro subisce un evidente fallo che gli impedisce di tirare. Il gioco, per quasi tutti, era fermo e sarebbe stato ovviamente giusto far ripartire l’azione con i secondi che mancavano al momento del maldestro suono della sirena. Breve conciliabolo fra i tre in grigio, che incredibilmente decidono di averne avuto abbastanza alle 21:45 di una domenica sera, mandando tutti negli spogliatoi fra sonore bordate di fischi (a loro indirizzati). E’ sperabile che il destino non incroci nuovamente le strade di queste due squadre, altrimenti questi sette secondi potrebbero diventare una pietra miliare della stagione, ed anche un ulteriore segno della qualità di una classe arbitrale evidentemente più preoccupata di preservare i diritti dei campioni più celebrati che di rispettare il regolamento alla lettera.
I musi lunghi quando il risultato pare ormai maturato già durante la partita, ed anche in sala stampa, danno la misura di quanto questi giocatori ci tengano a vincere realmente tutte le partite, accettando malvolentieri ogni situazione che possa portarli ad un risultato diverso, senza peraltro andare mai alla ricerca di scuse o attenuanti. E’ un atteggiamento che piace, ed infatti la squadra esce sotto gli applausi scroscianti dei 5708 spettatori paganti (ad occhio, i presenti sono molto vicini ai 6000). Apparentemente, i malanni che hanno provocato le assenze di Brooks e Ross sono di poco conto e non impediranno loro di preparare al meglio la prossima trasferta sul campo di una Treviso che anche oggi viene sconfitta al Palaverde da Trento facendo registrare il terzo passo falso consecutivo. Reyes aumenterà i carichi di lavoro ed il suo stato di forma non può che migliorare. Rimane solo da valutare lo stato della gamba di Candussi: lasciare da solo Johnson nel ruolo di “5” potrebbe infatti diventare un problema di difficile soluzione, ma perlomeno ora ci saranno cinque giorni di lavoro per preparare un piano partita che tenga conto di una sua eventuale assenza sabato prossimo.

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Crediti: foto Panda Images